Riprendo la mia rilettura della poesia di Pavese, intrapreso Qui, e, prima di passare alla sezione “Dopo” della raccolta “Lavorare stanca”, vorrei soffermarmi sull’ultima poesia della sezione “Antenati”.
Si tratta di “La notte”, composta nel 1938, una poesia «di una purezza elegiaca straordinaria», il cui linguaggio contrasta con quello «realistico, crudo e violento» delle poesie che lo precedono.
La notte
Ma la notte ventosa, la limpida notte
che il ricordo sfiorava soltanto, è remota,
è un ricordo. Perduta una calma stupita
fatta anch’essa di foglie e di nulla. Non resta,
di quel tempo di là dai ricordi, che un vago
ricordare.
Talvolta ritorna nel giorno
nell’immobile luce del giorno d’estate,
quel remoto stupore.
Per la vuota finestra
il bambino guardava la notte sui colli
freschi e neri, e stupiva di trovarli ammassati:
vaga e limpida immobilità. Fra le foglie
che stormivano al buio, apparivano i colli
dove tutte le cose del giorno, le coste
e le piante e le vigne, eran nitide e morte
e la vita era un’altra, di vento, di cielo,
e di foglie e di nulla.
Talvolta ritorna
nell’immobile calma del giorno il ricordo
di quel vivere assorto, nella luce stupita.
Nei componimenti che la precedono, il poetare passa attraverso un parlato lirico, un racconto epico; sono come dei mini-racconti, o come Pavese stesso li definiva: “frase colorita di parlato”, “poesia-racconto”. Qui, invece, Pavese propone una rappresentazione ritmica di una situazione, e cioè il momento delle scoperte dell’infanzia (tema caro a tutta la poetica e la narrativa pavesiana), raccontata da un soggetto che può ben essere lui stesso. Una composizione lirica che si distacca anche da “Notturno”, che si trova nella sezione “Dopo” che, invece, riprende la compiuta fusione fra figura e paesaggio, fra immagine e mitica memoria.
Nella poesia “La notte” troviamo le immagini, i simboli e le metafore tipiche di Pavese: le colline, la finestra, i ricordi . La finestra, in particolare, è lo spazio attraverso cui guardare al mondo con stupore (Pavese, ne “Il mestiere di vivere” dice: “La poesia nasce dagli istanti in cui leviamo il capo e scopriamo con stupore la vita”); riprendo una citazione che avevo annotato a margine e di cui non so precisare la fonte, ma che mi sembra molto coerente:
Questa «finestra-quadro» sulla vita ritrova, nella terza lassa della lirica, un protagonista inedito e una dimensione metafisica aperta al fascino notturno, alla domanda senza risposte. L’immagine acquisisce una notevole complessità: il protagonista è delineato (il bambino), avviene uno scambio tra vuoto dell’interno e vuoto incorniciato dalla finestra, tra oscurità interiore e tenebre esterne che velano il paesaggio tradizionale e vitale (foglie, colli, piante, vigne), la scomparsa della luce guida alla percezione del nulla contrastata dalle consuete immagini di evasione aerea (vita era un’altra … vento … cielo).
la finestra non è solo il varco, la proiezione, l’apertura verso l’esterno, verso l’ignoto, verso l’oggetto del desiderio, né è solo metafora del ricordo e magia del ricordare i ricordi, ma è essa stessa realizzazione sublimata del desiderio. La finestra è lo spazio attraverso cui osservare e contemplare il mondo, ma è anche parte di quel mondo. La finestra è il poetare attraverso il vedere e il vedere attraverso la poesia, è poesia mediante osservazione e osservazione mediante poesia, è visione poetante e poesia contemplante. La finestra è anche il vuoto che lascia penetrare la notte remota.
Attraverso quella finestra il bambino guarda la notte sui colli, il poeta descrive il paesaggio e si identifica col bambino, il lettore si identifica col poeta e col bambino.
I temi cari a Pavese li troviamo narrati attraverso una serie di opposizioni e parallelismi, corrispondenze e contrasti che fanno da eco, sul piano stilistico e contenutistico, al dualismo della personalità del poeta, sempre dilaniata tra la dimensione adulta e infantile, cittadina e campagnola.
Già il primo verso parte con il “Ma” oppositivo e salta subito all’occhio la contrapposizione della “notte ventosa” alla leopardiana “Dolce e chiara è la notte e senza vento” (in “La sera del dì di festa”). È il preludio ad una serie di opposizioni semantiche:
luce-buio
stasi-movimento
vita-morte
passato-presente
lontano-vicino
presenza-assenza
astratto-concreto
vedere-udire
Esattamente come in tutta la produzione pavesiana troviamo sempre presenti le coppie antitetiche: città-campagna, ozio-lavoro, infanzia-età adulta, uomo-donna.
Molta poesia del Novecento ha visto la presenza di quel “Ma” oppositivo ad inizio di verso:
Eugenio Montale, «Ma dove cercare la tomba» (in Ma dove cercare la tomba, da Ossi di seppia); Mario Luzi, «Ma tu continua e perditi, mia vita» (in (se musica è la donna amata), da Avvento notturno); Corrado Govoni, «Ma chi è, chi è che suona» (in Il piano da Fuochi d’artificio; Mario Moretti, «Ma che è che vaga nell’aria?», (in Che è che vaga nell’ aria, da Poesie scritte col lapis, Nino Oxilia, «Ma voi non vedeste la lampa», (in Il saluto ai poeti crepuscolari, da Gli orti).
pavese è uno dei miei autori preferiti sia in poesia che in prosa…quindi ho apprezzato molto il tuo post…buona domenica
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Non ho mai letto nulla di Pavese però questo post mi è piaciuto molto 🙂
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Pavese è tutto da scoprire!
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Che bello ritrovare il mio amato Pavese dentro le tue parole!
Grazie
Adriana Pitacco
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Non riesce a fare a meno di lui… leggo tanto ma ogni tanto ho bisogno di tornare sulle sue pagine… buona domenica
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Forse risolverò raccontandolo. Da tempo, molto, desidero rileggere Pavese. E mi ritraggo, per la difficoltà di affrontare un’emozione, e un dolore, troppo grandi, che (mi pare) chiedono spalle giovani per essere sostenuti. Tanto più ti ringrazio di questi intensi assaggi. Magari mi consentiranno di reimmergermi, a guardare in faccia il male di vivere.
Complimenti
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Le letture di Pavese si portano appresso molte riflessioni. Talvolta bisogna aspettare il momento giusto per affrontarle
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Spesso utilizzo estratti di sue poesie per arricchiere le mie foto. 😉
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Sarà la mia passione per il dettaglio, ma mi piace molto quando una sola parola, come il “ma” di cui parli tu, scatena lunghe riflessioni, anche perché è indice del “peso specifico” del poeta in questione. Quanto si potrebbe dire, per fare un altro esempio, del “nostra” in Dante, Inf. I,1…!
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Condivido appieno la tua sottile affermazione; in una parola sta il peso di un’intera epifania.
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È vero: il grande autore non le sceglie mai a caso; poi magari non saprebbe spiegare perché quella precisa espressione gli paresse buona in quel momento, ma scavando si trovano reminiscenze, collegamenti particolari… quella che gli studiosi chiamano “memoria poetica” e che, nonostante il nostro mito romantico dell’originalità, continua ad agire. In un’opera tendono a intrufolarsi sempre anche i libri che l’autore ha letto e gli erano rimasti impressi per qualche ragione.
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Aggiungo che, secondo me, senza quelle letture nessun autore sarebbe ciò che è.
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Naturalmente, perché lo formano e ne indirizzano in qualche modo l’opera. Poi ci sono quegli autori, come Petrarca, che lo sanno e ci lavorano sopra coscientemente: se l’ingegno non è proprio eccezionale, alludi agli auctores con parole tue. È la teoria dell’imitazione della letteratura d’antico regime (prima della nascita di romanzo ed editoria).
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Laddove il valore dell’opera era proprio legittimata dall’autorevolezza degli auctores a cui si rifaceva
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Appunto. E ridendo e scherzando, stiamo scrivendo a quattro mani un bel manuale di letteratura e critica letteraria… 🙂
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sarà che è lì che ci piace bazzicare ? 😉
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Moltissimo, come sempre con le passioni.
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