mareTerra rossa terra nera

tu vieni dal mare,

dal verde riarso,

dove sono parole

antiche e fatica sanguigna

e gerani tra i sassi –

non sai quanto porti

di mare parole e fatica,

tu ricca come un ricordo,

come la brulla campagna,

tu dura e dolcissima

parola, antica per sangue

raccolto negli occhi;

giovane, come un frutto

che è ricordo e stagione –

il tuo fiato riposa

sotto il cielo d’agosto,

le olive del tuo sguardo

addolciscono il mare,

e tu vivi rivivi

senza stupire, certa

come la terra, buia

come la terra, frantoio

di stagioni e di sogni

che alla luna si scopre

antichissimo, come

le mani di tua madre,

la conca del braciere.

27 Ottobre 1945

vgNei post precedenti abbiamo letto le poesie di “Lavorare stanca”: oggi vorrei riprendere le letture toccando le poesie che Pavese compose tra l’ottobre e il dicembre del 1945; sono nove componimenti che Pavese pubblicò sulla rivista «Le Tre Venezie» nel 1947 sotto il titolo di “La terra e la morte”. Per analizzarle mi rifaccio alle parole stesse del poeta, datate ben prima della loro composizione.

Pavese spiega il suo nuovo corso con queste parole scritte nel febbraio del 1940 in uno studio che intitola “A proposito di certe poesie non ancora scritte” :

Questo nuovo canzoniere porterà in sé la sua luce quando sarà fatto, quando cioè dovrai negarlo. Ma due premesse risultano dal sin qui detto:

  • la sua costruzione sarà analoga a quella di ogni singolo pezzo poetico;
  • non sarà riassumibile in racconto naturalistico.

 

Ciò che in questi due punti è gratuito – l’esigenza di una poesia non riconducibile a racconto – è tuttavia lievito di domani. (…) È un’intenzione, una premessa irrazionale, che sarà giustificata soltanto dall’opera. Quattro anni di velleità e d’introspezione te l’impongono, come nel 1931-32 una voce t’imponeva di raccontare versi.”

Quindi, possiamo dire che Pavese passa dall’oggettivazione narrativa delle poesie di “Lavorare stanca”, ad un nuovo soggettivismo lirico, che trascende il limite della confessione esprimendo un linguaggio poetico che diviene sempre più immagine, valore musicale. Una capacità di rinnovarsi che sottende alla grandezza del poeta, che anziché prolungare una stagione felice, ma chiusa, continua a ricercare una nuova espressività. Prosegue Pavese:

“È certo che anche stavolta il problema dell’immagine terrà il campo. Ma non sarà questione di raccontare immagini, formula vuota, come s’è visto (…) Sarà questione di descrivere – non importa se direttamente o immaginosamente – una realtà non naturalistica ma simbolica. In queste poesie i fatti avverranno – se avverranno – non perché così vuole la realtà, ma perché così decide l’intelligenza. Singole poesie e canzoniere non saranno un’autobiografia ma un giudizio.”

 

 

colline tramontoDi salmastro e di terra

è il tuo sguardo. Un giorno

hai stillato di mare.

Ci sono state piante

al tuo fianco, calde,

sanno ancora di te.

L’agave e l’oleandro.

Tutto chiudi negli occhi.

Di salmastro e di terra

hai le vene, il fiato.

 

Bava di vento caldo,

ombre di solleone –

tutto chiudi in te.

Sei la voce roca

della campagna, il grido

della quaglia nascosta,

il tepore del sasso.

La campagna è fatica,

la campagna è dolore.

Con la notte il gesto

del contadino tace.

Sei la grande fatica

e la notte che sazia.

 

Come la roccia e l’erba,

come terra, sei chiusa;

ti sbatti come il mare.

La parola non c’è

che ti può possedere

o fermare. Cogli

come la terra gli urti,

e ne fai vita, fiato

che carezza, silenzio.

Sei riarsa come il mare,

come un frutto di scoglio,

e non dici parole

e nessuno ti parla.

15 Novembre 1945

Cosa annotava in quei mesi Pavese nel suo diario, “Il mestiere di vivere”?

“È venuto per la terza volta, quel giorno. È l’alba, un’alba di nebbia diffusa, viola fresco. (…) Per la terza volta è venuto il mio giorno. Il dolore più atroce è sapere che il dolore passerà. Adesso è facile umiliarsi. E poi?

13 agosto ’37        25 settembre ’40        26 novembre ‘45

(pomeriggio)               (sera)                       (notte)

Proprio il contrario di quanto ci hanno insegnato. Da giovani si rimpiange una donna,da maturi la donna.

“Il senso terribile che tutto quel che si fa è storto, e quel che si pensa e quel che si è. Nulla può salvarti, perché qualunque decisione tu prenda, sai che sei storto e così è la tua decisione”.

È finito anche il terzo amore di Pavese, quello con Bianca Garufi, così come erano finiti quelli con Tina Pizzardo, la donna dalla voce roca, e quello per Fernanda Pivano (di cui ho parlato nel post ). Nel diario Pavese annota:

T. ti aveva detto soltanto che le poesie ti bastavano e le aveva amate molto

F. senza discuterne il riflesso pratico, le aveva lette con curiosità paziente

B. ti dice che non avrai altro, e criticamente le ama molto.

È già due volte in questi giorni che metti accanto T,F,B. C’è qui un riflesso del ritorno mitico. Quel che è stato sarà. Non c’è più remissione. Avevi 37 anni e tutte le condizioni favorevoli. Tu cerchi la sconfitta.

Non si deve cadere nell’errore di vedere questi versi unicamente legati alle delusioni amorose di Pavese. “Non fate troppi pettegolezzi”, ebbe la preoccupazione di annotare quando decise di farla finita. Ma certamente il dolore di non riuscire a realizzare un’unione non solo intellettuale ma anche affettiva, sessuale, il non vedere concretizzarsi il suo bisogno di un legame profondo, incise in modo determinante sulla sua poetica. L’ultima sconfitta si consumerà poi a Cervinia con l’abbandono da parte di Constance Dowling. Ne parlerò a proposito di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Intanto Pavese compone questi versi.

Sempre vieni dal mare

e ne hai la voce roca,

sempre hai occhi segreti

d’acqua viva tra i rovi,

e fronte bassa, come

cielo basso di nubi.

Ogni volta rivivi

come una cosa antica

e selvaggia, che il cuore

già sapeva e si serra.

Ogni volta è uno strappo,

ogni volta è la morte.

Noi sempre combattemmo.

Chi si risolve all’urto

ha gustato la morte

e la porta nel sangue.

Come buoni nemici

che non s’odiano più

noi abbiamo una stessa

voce, una stessa pena

e viviamo affrontati

sotto povero cielo.

Tra noi non insidie,

non inutili cose –

combatteremo sempre.

Combatteremo ancora,

combatteremo sempre,

perché cerchiamo il sonno

della morte affiancati,

e abbiamo voce roca

fronte bassa e selvaggia

e un identico cielo.

Fummo fatti per questo.

Se tu od io cede all’urto,

segue una notte lunga

che non è pace o tregua

e non è morte vera.

Tu non sei più. Le braccia

si dibattono invano.

Fin che ci trema il cuore.

Hanno detto un tuo nome.

Ricomincia la morte.

Cosa ignota e selvaggia

sei rinata dal mare. 
19-20 Novembre 1945

Ritornerò a leggere anche le altre poesie di questa raccolta, perché tutte, proprio tutte, mi pesano sul cuore.