“La campagna ai due lati della strada era piatta e brulla, il terreno sabbioso, nei campi pianeggianti le stoppie di grano ancora lucide e brillanti dalla mietitura di luglio. Oltre il canaletto di scolo il granturco, verde scuro e robusto, aveva superato i due metri. In lontananza i silos si stagliavano alti e bianchi sulla città accanto ai binari della ferrovia. Era una giornata luminosa e limpida, da sud soffiava un vento caldo.”

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Leggendo “Crepuscolo” di Kent Haruf, edito da NNEditore, torniamo a Holt, una ipotetica, quanto mai realistica, cittadina del Colorado; l’abbiamo conosciuta negli altri due romanzi della trilogia, “Benedizione” qui e “Canto della pianura” qui, e ora ci sembra di tornare a casa per assistere allo svolgersi delle vite semplici – ma solo in apparenza- dei suoi abitanti.

Se la parola chiave del primo era la morte e del secondo la vita, in questo terzo romanzo, per me, la parola chiave è speranza. È quel sentimento che, nonostante tutti gli eventi negativi, le difficoltà e le sofferenze, ti fa guardare avanti cogliendo ciò che di positivo ci si può aspettare dalla vita e farne essenza. È scommettere su una nuova occasione, su se stessi, sull’amicizia che farà tornare indietro le persone, sulla possibilità di costruire nuovi affetti anche quando sembra impossibile, è trasformare un evento terminale in rinascita.

Nelle prime pagine ritroviamo i fratelli McPheron, Harold e Raymond, ruvidi e attempati allevatori, e Victoria, la diciassettenne che, cacciata di casa della madre perché incinta, ha trovato accoglienza presso di loro. Sono diventati una famiglia: erano due anziani solitari e ora si ritrovano padri e nonni, mentre Victoria ha finalmente sperimentato il senso di protezione e affetto che le erano mancati nella sua famiglia. Ora però per Victoria è il momento di spostarsi a Fort Collins, per frequentare l’università.

“Puoi chiamarci se ti serve qualcosa, disse Harold. Noi ci saremo sempre all’altro capo del filo.

Ma mi mancherete comunque.

Sì, disse Raymond. Guardò fuori dalla veranda, verso il cortile e più in là verso i pascoli bruni. Le alture sabbiose, basse e azzurrine in lontananza sul basso orizzonte, il cielo così vuoto e luminoso, l’aria così asciutta. Anche tu ci mancherai, disse. Quando non ci sarai più vagheremo come vecchi cavalli da lavoro sfiniti. Ce ne staremo qui soli a guardare oltre la recinzione. Si girò per studiarla. Un volto caro e familiare, tutti e tre, loro e la bambina, che vivevano nella stessa aperta campagna, nella stessa vecchia casa malandata. Ora però mi sa che è meglio se Sali, disse. Dovremo pur partire, no?”

Ho riportato questo lungo stralcio per rendere chiara la magia della scrittura di Haruf: in poche righe, con uno stile essenziale ma allo stesso tempo ricco di sfumature, ci mette davanti i sentimenti, il paesaggio e la sua assonanza con essi, in un modo che ci pare di vederli quei volti, così come ci sembra di cogliere gli sguardi, i gesti, i silenzi, come se fossimo lì, a pochi metri dai protagonisti.

Procedendo nella lettura conosciamo nuovi personaggi, come Luther e Betty e i loro figlioletti Richie e Joy Rae. Sono una famiglia in difficoltà, sottoposta alla supervisione dei Servizi Sociali; Betty è una donna debole, instabile: “Sembrava assorta in qualcosa che l’aveva intristita, qualcosa che non avrebbe mai potuto dimenticare, era come prigioniera di quel pensiero, qualunque esso fosse.” Tutto si farà più chiaro al progredire della storia e la verità non tarderà a mostrare i lati caratteriali in bilico sia di lei che del marito, un uomo grande e grosso ma totalmente inetto. Il tutto a discapito dei figli, fragili e scossi dagli eventi come uccelli implumi caduti da un nido.

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Ci imbattiamo in Rose Tyler, l’assistente sociale che li segue: una donna forte, capace e decisa a fare di tutto per salvaguardare i bambini. Avrà un ruolo decisivo e importante nella loro vita, ma non solo…

E in DJ Kephart, orfano, che vive col nonno, anziano e malandato e che, oltre ad andare a scuola, si occupa di cucinare e tenere in ordine la casa.

“Era un ragazzino troppo magro per la sua età, con braccia sottili, gambe sottili e i capelli castani che gli scendevano sulla fronte. Era dinamico e responsabile, e troppo serio per essere un ragazzo di undici anni.”

Lo vediamo muoversi nella casa dimessa, nella frugalità dei pasti, senza affetti genitoriali a scaldarlo e accudirlo; fa amicizia con una ragazzina vicina di casa, Dena, anche lei vittima di una situazione familiare dominata dall’assenza. Nel suo caso è il padre che se ne è andato a vivere in Alaska, abbandonando lei, la madre e la sorella al loro destino. E Mary Wells, sua madre, che, disperata per l’abbandono, si lascia andare, arrivando a toccare il fondo per poi provare a risalire e salvare le vite sue e delle figlie.

Ritroviamo anche Tom Guthrie e i filgi Ike e Bobby, e Maggie Jones.

E poi ci imbattiamo nel personaggio più odioso, il “cattivo” per eccellenza: Hoyt. Non dirò di più, per lasciare intatta la scoperta delle sue gesta; dico solo che imparerete ad odiarlo.

holt mappaNaturalmente, oltre a loro, ci sono tutti gli altri abitanti di Holt, e le taverne fumose e vocianti, i negozi, i campi, gli animali. Le strade percorse dalle auto dei liceali, i treni e i lunghi binari che si perdono a est e ovest….

Nella mia personale lettura ho colto due perni attorno ai quali ruota la narrazione: l’infanzia in pericolo e la potenza dell’amore laddove è un sentimento vero e non necessariamente dovuto a legami familiari. Anzi, questi legami spesso sono motivo di sofferenza.

I bambini di questo romanzo sono quasi sempre lasciati a se stessi, passano molte ore da soli, vagando tra le case e i terreni adiacenti, costretti a provvedere al loro sostentamento; a volte bullizzati dai più grandi, oppure emarginati. Spesso si avverte la mancanza di protezione degli adulti, i legami familiari sembrano delle reti a maglie larghe, incapaci di trattenere niente, e i ragazzi imparano l’arte di doversi arrangiare, così come succede per i vitellini che vengono separati dalle mucche e come, con una certa dose di cinismo/realismo, spiega Tom Guthrie ai suoi figli:

“Quelle bestie fanno davvero un sacco di rumore, disse Ike. Non sembrano molto contente.

No, rispose Guthrie.

Guardò il figlio, seduto accanto a lui nel furgone che viaggiava sulla strada sterrata in quel luminoso pomeriggio invernale, l’aperta campagna piatta tutto intorno a loro, grigia, bruna, molto secca.

Non lo sono mai, disse. Non riesco a immaginare qualcosa o qualcuno che possa esserne contento. Ma ogni essere vivente a questo mondo prima o poi va svezzato.”

Tom, col suo pragmatismo, ci mette di fronte al destino di tutti i bambini che vediamo nella storia; qualcuno ne uscirà cresciuto e fortificato, qualcuno forse no.

Il polo negativo della storia, Hoyt, è bilanciato dal polo positivo Raymond McPheron. Non voglio svelare nulla; dico solo che non si può non amarlo! Di poche parole, apparentemente ruvido, nasconde una dolcezza e una generosità incondizionate. Lo vediamo prendersi cura delle persone senza clamore, in modo concreto e delicato, senza essere invadente. Non è avvezzo a esprimere ciò che sente e quando lo fa, appare impacciato e imbarazzato, ma i suoi gesti parlano per lui.

“Raymond amava tutto ciò che stava vedendo, anche se non l’avrebbe mai detto in questo modo. Avrebbe potuto dire che tutto aveva semplicemente l’aspetto che doveva avere, in aperta campagna, sugli altipiani, in una notte fresca e serena di fine inverno.”

Copio il link all’editore, dove trovate tutte le informazioni e, come per gli altri romanzi, il bellissimo Songbook, che vi consiglio di ascoltare durante la lettura.

http://www.nneditore.it/libri/crepuscolo/

L’incipit potete leggerlo qui

Haruf tutti

Chiudo la lettura della Trilogia con rammarico; ne avrei letti altri ancora… ma mi accontento, tra un po’ di tempo, di rileggere questi bellissimi romanzi.

 

 

Appuntamento alla prossima recensione di Haruf, “Le nostre anime di notte”

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