Questo mea culpa lo pronuncia Degas al funerale di Édouard Manet, sintetizzando l’atteggiamento generale, ad esclusione di alcuni – pochi – veri amici ed estimatori di Manet, prima tra tutti Berthe Morisot, presente in mostra in varie tele in cui Manet la ritrasse.

Manet Berthe col ventaglioEdouard_Manet_-_Berthe_Morisot_With_a_Bouquet_of_Violets_-_Google_Art_Project

E con un suo dipinto: “Giovane donna in tenuta da ballo”:

morisot giovane donna

“Non mi dispiacerebbe di poter leggere finalmente, mentre sono ancora vivo, il meraviglioso articolo che mi dedicherete non appena sarò morto.”

Era amareggiato Manet; soprattutto negli ultimi giorni della sua vita, quando, di fronte alla malattia che inesorabilmente non gli avrebbe concesso scampo, si rendeva conto che la sua arte non avrebbe avuto il giusto tributo sotto i suoi occhi. Lo confidò agli amici più intimi, che loro certo lo apprezzavano, con nel cuore la delusione, l’impotenza.

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Ritratto di Emile Zola, 1868

 

 

E la fama naturalmente è arrivata postuma, come per tutti i grandi artisti innovatori, troppo discordanti col gusto imperante della loro epoca, troppo “nuovi”, troppo presi a trovare letture diverse della realtà, letture personali, originali, fuori dal coro. A noi oggi, osservando i suoi dipinti, così come ci succede di fronte ai quadri impressionisti, o a Van Gogh, sembra impossibile che le persone a loro contemporanee non potessero capire, apprezzare… Eppure, quanti di noi di fronte all’arte contemporanea si sentono spiazzati, non la comprendono, o non la considerano arte?

Parto da queste considerazioni dopo avere visto la bellissima mostra “Manet e la Parigi moderna”, in cartello a Palazzo Reale, a Milano, fino al 2 luglio, che naturalmente vi raccomando, se ne avete la possibilità.

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Cameriera con boccali, 1879

La Parigi moderna è l’elemento essenziale per entrare nel mondo di Manet; la mostra mette ben in evidenza i cambiamenti urbanistici, l’avvento della fotografia, il nuovo stile di vita, la moda, i locali, la cultura predominante e i movimenti artistici che la animarono nell’Ottocento. Manet la visse nel pieno delle sue possibilità: era curioso di umanità, affamato di umanità. Lui, per sentirsi vivo, doveva trovarsi nella Città, passeggiare sui boulevard, frequentare locali e salotti, ma non per un vezzo di  mondanità, ma soprattutto per osservare la realtà che lo circondava, la modernità in tutte le sue espressioni e manifestazioni, voleva stare al passo col cambiamento e dipingerlo. Manet proveniva da una famiglia agiata, aveva disponibilità economica, e questo gli permise di non dovere scendere a compromessi per compiacere il mercato, poté lavorare secondo i suoi convincimenti. Frequentava tutti gli artisti del momento, gli ufficiali e i rivoluzionari, osservava, pensava, ma non voleva rientrare in una categoria predefinita. Da un lato non rifiutava la pittura ufficiale, cercando di coglierne gli aspetti a lui più affini e ospitandola nei suoi dipinti rileggendola però secondo la sua sensibilità; dall’altro, apprezzava l’intento innovativo e scardinante del gruppo dei bohemien, dei quali ammirava soprattutto il concetto del cogliere l’impressione della realtà, la propria personale e istantanea visione di quel momento. Non volle però esporre al padiglione dei Refusee, non ritenendosi un rifiutato, a almeno aspirando a non esserlo. Manet contribuì alla nascita dell’Impressionismo, ma lui non era solo quello: ad esempio, non amava dipingere “en plein air”, non si immergeva nella natura; a lui interessava di più la città, gli interni, i luoghi della vita reale della società. Amava gli studi sulla luce degli Impressionisti (prima ancora che lo fossero), ma la sua tavolozza* era composta per lo più dai colori scuri, da quella dicotomia chiaro-scuro, che gli veniva dall’ammirazione per i grandi del passato – Caravaggio, Giorgione, Goya, Velázquez – e per la quale tante volte la sua amica Berthe Morisot lo ammoniva, e lo consigliava di accogliere anche la luce e le sfumature di colore, di cacciare le ombre nere e di puntare sulle ombre tono su tono, care agli Impressionisti. Qualche volta la ascoltò, ma non sono quelli i dipinti che abbiamo impressi nella mente, o almeno, lo sono forse di meno.

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*La scandalosa Olympia e La colazione, emblematici della sua tavolozza, anche se non sono presenti in mostra lo sono nella nostra memoria.

Manet la letturaQuesto ritratto della moglie Suzanne, in cui nell’angolo compare anche il figlio (probabilmente non lo era di Manet) ci appare come impressionista, e sicuramente lo è: la luce, i colori chiari, il modo di rendere le ombre e i volumi. Tuttavia, lo sguardo …

La sua lettura della realtà mette l’accento su aspetti discordanti dal coro generale, celebrativo e gioioso, dei locali alla moda: osservate gli sguardi delle persone ritratte, le cameriere ad esempio, quella “Con boccali” sopra e quella celeberrima (che però non è in mostra), ritratta al bar delle Folies-Bergère:

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Il bar delle Folies-Bergère, 1881-1882

 

Come è inquietante, assente, lontano il loro sguardo!

E quanto è diversa la scena da quella di un Boldini, per esempio. É sempre la stessa Parigi quella che vedono Boldini e Beraud (nella sua inquadratura fotografica). Questo è il genere di quadri che piacevano, e che venivano acquistati; quelli di Manet, invece, non piacevano perché non rispettavano i canoni, non si comprendeva il perché di quegli sguardi che non esprimono allegria e divertimento, spensieratezza. Gli sguardi di Manet inquietano.

 

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Scena di festa, Boldini

 

 

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Una sera di festa, Jean Beraud, 1878

manet il balconeCosa poteva pensare la gente di un quadro come questo? Dove nessuno sembra felice, o almeno sorride. Berthe, la donna a sinistra, è seria e guarda in una direzione diversa dagli altri due, anch’essi con espressioni assenti. Un distacco rimarcato dalla ringhiera, di un verde “impossibile”, una totalità che non piaceva. E lo sfondo interno indefinito… Il dipinto venne sbeffeggiato e criticato.

 

 

E lo sguardo di Mallarmé? manet ritratto di mallarme

In tutti questi sguardi c’è sospensione, c’è un’ interiorità persa a cercare se stessa, che non cerca l’intesa con chi osserva il dipinto, ma resta chiusa in sé, anche quando, come per le cameriere, punta dritto verso lo spettatore. Nel ritratto di Zola, che apparentemente sembra rispettare i canoni dei ritratti – la resa dello status, del ruolo sociale, del lavoro svolto, la figura di tre quarti, al tavolo – ci sono elementi di disturbo che lo rendono sgradito al pubblico coevo: ad esempio la giacca, troppo nera, senza sfumature, senza toni, o la tappezzeria della poltrona, pennellate impressioniste.

manet pifferoIl soggiorno di Manet in Spagna si ritrova in molte opere, e nella mostra ve ne sono, come i ritratti di Lola de Valence e di Angelina, o nei ventagli che vediamo comparire in altri ritratti (ad esempio in quello di Berthe). Manet volle rendere omaggio a ciò che vide in Spagna, soprattutto all’opera di Velazquez, con un dipinto, “Le Fifre” (il pifferaio), eseguito nel 1866: eliminando ogni dettaglio, il pittore si concentra sulla figura del ragazzino, rappresentata su uno sfondo neutro, inesistente; il contrasto coloristico è giocato su pochissimi colori: rosso, nero e bianco.  Domina la figura, eseguita con una stesura piatta, bidimensionale, accentuata dal contorno creato dalla banda nera dei pantaloni. Una rappresentazione che non piacque, che venne aspramente criticata, nonostante l’accorata difesa dell’amico Zola, che disse: “Non credo che sia possibile ottenere un effetto più potente con mezzi più semplici”.

Chiudo queste considerazioni con un dipinto che raffigura fiori – chi mi conosce sa quanto ami questo genere di rappresentazione-; alla maniera di Manet. Il contrasto chiaro scuro delle peonie, e la cesoia a fianco, creano un effetto indimenticabile.manet peonie