“Noi siamo gli americani invisibili, quelli che a nessuno importa nemmeno di conoscere perché gli hanno detto di avere paura di noi e perché forse, se facessero lo sforzo di conoscerci, si renderebbero conto che non siamo poi così cattivi, e forse addirittura che siamo molto simili a loro. E chi odierebbero, allora?”

“The book of Unknown Americans” è il titolo originale, tradotto da Roberto Serrai in “Anche noi l’America”, di Cristina Henríquez, NNE 2016

La traduzione del titolo – spiegata da Serrai nella sua Nota – mantiene fede ai due cardini attorno ai quali ruota questo emozionante romanzo: la coralità e il sogno americano. Un sogno che non si riveste dei connotati di ricchezza e successo sociale, ma piuttosto di ricerca di sicurezza e libertà. Perché i personaggi che via via si affacciano davanti al lettore – e che il lettore quasi pensa di vedere seduti in poltrona a raccontargli la propria storia – hanno tutti lasciato il proprio Paese per fuggire a condizioni di forte instabilità sociale e politica, o di povertà, o di bisogno di cure.

“Politicamente, sai, non era poi tanto male. Somoza se n’era andato da un pezzo, i contras erano solo un ricordo. Ma per lasciare la povertà del Nicaragua e andare nel paese più ricco del mondo non c’era bisogno che qualcuno ti convincesse.”

Leggere le pagine di “Anche noi l’America” è come avere davanti una foto di gruppo, come quelle che scatta Micho Alvarez il pomeriggio di Natale, a casa dei Toro, dove gli inquilini del condominio si sono ritrovati, per riscaldarsi col calore umano, visto che il riscaldamento si è rotto. I Redwood Apartments è un grande condominio abitato da persone che hanno in comune la provenienza dai paesi dell’altra America, quella che guarda agli States con la speranza di una vita migliore, “l’idea del possibile che ti dà slancio”, pur sapendo che non tutto sarà come si è sperato, che le difficoltà ci saranno e bisognerà stringere i denti.

È un romanzo collettivo dove ci sono i protagonisti principali, la famiglia Rivera e la famiglia Toro, e tutti gli altri coinquilini, i latinos residenti nel condominio; la narrazione è condotta in prima persona da Alma Rivera e da Mayor Toro, a cui si alternano gli altri personaggi, ciascuno prendendo la parola per raccontare la propria storia, cosa si è lasciato alle spalle e perché.

Alma, suo marito Arturo e la figlia Maribel hanno lasciato il México, con tanta nostalgia nel cuore ma consapevoli della necessità di offrire a Maribel una possibilità: quella di essere curata e seguita in maniera adeguata, con dei programmi scolastici adatti a farle recuperare il trauma che ha subito a causa di un incidente; un tragico avvenimento che ha modificato la sua vita e ha creato un senso di colpa difficile da superare nella madre. Per questo viaggio hanno messo via tutti i risparmi, hanno aspettato un anno per avere i documenti in regola e con un lavoro concreto ad attenderli nel Delaware, e un minuscolo e spoglio appartamento dove sistemarsi. Manca tutto: l’arredamento, i cibi del proprio paese, la famiglia, i soldi, ma sono disposti a sopportare tutto ciò purché Maribel possa ristabilirsi.

“E perché volevo credergli, perché volevo più di ogni altra cosa che tutto le andasse bene e alla fine ancora più che bene, perché volevo che si trasformasse di nuovo nella ragazza che era una volta, e che quest’anno fosse solo una strana e crudele deviazione che ora potevamo lasciarci alle spalle senza doverla imboccare mai più, annuii e guardai l’autobus allontanarsi a fatica.”

Una volta arrivati, conoscono gli altri inquilini: la famiglia Toro, per prima, giunta qui da Panamá, quando i due figli erano ancora piccoli. Il padre Rafael, la madre Celia – che diverrà l’amica di Alma – e il figlio Mayor (l’altro figlio è lontano con una borsa di studio).

Celia aiuta Alma a superare il senso di estraneità che prova: non conosce l’inglese, non capisce le regole, fa fatica ad orientarsi nei negozi o sui mezzi pubblici. È una donna forte, tuttavia, e reagisce in modo costruttivo; il suo unico punto debole è l’estrema ansia che prova nei confronti di Maribel. È terrorizzata da qualunque elemento o persona esterna che si avvicini a lei, la sente indifesa e debole.

Il filo della narrazione, oltre ad Alma, è saldamente riposto nella voce di Mayor, il figlio minore dei Toro, diciassettenne mingherlino preso di mira dai compagni di scuola, schiacciato dal peso della personalità del fratello e dal confronto continuo a cui il padre lo sottopone. Proprio la sua sensibilità lo mette immediatamente in comunicazione con Maribel, bellissima ed evanescente, che lui vede con gli occhi sinceri di chi vuole parlare con lei, anche quando lei non sembra sentirlo, esserle amico; Mayor ha un ruolo determinante per fare scattare la reazione di Maribel, per farla riavvicinare a se stessa, e tornare ad essere come era prima dell’incidente.

“Poi la voce degli angeli: rise anche Maribel. Leggera, cristallina. Una risata di sottili bolle di vetro.”

Il coro delle voci attorno a loro ci offre tante storie, quelle di chi ha provato ad integrarsi, rispettando le regole, o di chi è fuggito dalla guerra, dai narcos; coloro che sgobbano dalla mattina alla sera nei lavori più umili, e lo fanno per offrire ai propri figli delle opportunità, che sono pronti a dichiararsi americani come e più degli altri quando il paese è sotto attacco l’11 settembre. Persone che chiedono solo di non essere guardati come quelli che arrivano a rubare il lavoro agli americani veri, che rubano, che spacciano. Persone che devono sempre dimostrare tutto, che non possono sbagliare nemmeno una virgola: come quando Rafael Toro compra una vecchia auto e percorre l’autostrada pianissimo, terrorizzato di commettere un’infrazione, conscio che se davanti ad un gringo la polizia è meno severa, non lo è affatto coi latinos. Oppure ragazzi, come Mayor, che si sentono lacerati tra due diverse identità: non pienamente radicati nella cultura di provenienza, desiderosi di appartenere al paese che li ha ospitati e, tuttavia, frustrati nel vedersi rifiutati.

“Mi sentivo americano più di ogni altra cosa, ma anche su questo si poteva discutere, almeno secondo i miei compagni di scuola. (..) Mi sentivo americano e non me lo lasciavano dire, mi dicevano che ero panamense ma non mi ci sentivo.”

Conosciamo Fito, il padrone di casa, arrivato dal Paraguay, Nelia Zafón, José Mercado e sua moglie Ynez da Puerto Rico, Benny Quinto dal Nicaragua, Quisqueya Solís dal Venezuela, e tutti gli altri; una polifonia di voci che unite cantano la migrazione, la nostalgia per la propria terra, per gli affetti lasciati laggiù, i ricordi legati alla vita di prima, la relativa tranquillità conquistata a fatica e minacciata ogni giorno da fattori esterni come la crisi economica che colpisce anche gli States, o i pregiudizi verso gli immigrati.

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Si tratta dunque di una storia molto attuale, che ci riguarda tutti, noi italiani forse più di altri, in quanto popolo di emigranti, e suolo di arrivo dei migranti economici e in fuga dalle guerre che ogni giorno sbarcano sulle nostre coste. È una storia che punta l’attenzione anche sull’importanza della memoria, del non dimenticare da dove si arriva e quali sono le proprie radici; il portarsi dentro il luogo dove si è nati e cresciuti, indipendentemente dal motivo per cui lo si è lasciato. Così come il suolo su cui si è arrivati.

“Perché un posto ti può fare molto male, ma se è casa tua o lo è stato una volta, lo ami comunque. Funziona così.”

Coltivare la memoria non per isolarsi in comunità monoculturali, ma al contrario per meglio integrarsi, per aggiungere il proprio tassello al complesso puzzle che è la società attuale, che dovrebbe trovare ricchezza nel multiculturalismo e non averne timore.

Lo stile della Henríquez è molto diretto e lineare, un periodare sciolto ed essenziale, come è giusto che sia per essere coerente con le voci narranti; l’esposizione è uniforme e accomuna i diversi protagonisti che si raccontano. Una coesione stilistica che accentua ed esalta il senso di unità e somiglianza tra le storie, tra i “passati” di coloro che sono giunti nello stesso luogo da posti e vite diverse, ma che hanno sostanzialmente fatto un percorso affine.

Leggere questo romanzo fa scattare molte reazioni: ci si commuove, ci si indigna, ci si arrabbia e si prova impotenza. Si vorrebbe essere lì a rincuorare Alma, soprattutto alla fine, dove il destino si compie e per le persone come loro ha sempre una doppia faccia: quella positiva, della speranza, e quella dolorosa della perdita. Si vorrebbe esseri lì ad accarezzare i capelli di Maribel, a circondarla in un abbraccio, o dare manforte a Mayor contro i prepotenti. Questo è uno di quei romanzi che non lascia indifferenti, che consegna al lettore una chiave di lettura per leggere la realtà, per comprendere le persone quando sono in difficoltà e provare ad essere solidali.

Copio il link alla CE, dove potete trovare le informazioni sull’autrice, giovane ed affermata, talentuosa protagonista della letteratura attuale:

http://www.nneditore.it/libri/anche-noi-lamerica/

L’incipit potete leggerlo Qui