“Qualche luce e molte ombre. Questo è un modo di dire che ci appartiene, tipico di chi è sangue del nostro sangue. Lo disse per prima Nonna Ester (..) la frase ci fece sorridere e a poco a poco l’abbiamo adottata e adattata a situazioni diverse.”

Palomas capodanno aperto 2

Capodanno da mia madre, di Alejandro Palomas, Neri Pozza 2015, traduzione di Alessio Arena, pagg. 272, in copertina un’opera dell’artita Ben Giles (vedi post).

Qualche luce e molte ombre: come in tutte le famiglie, la vita è proprio questo, un disegno in chiaro-scuro, un palcoscenico dove ciascuno gioca il proprio ruolo mai a sé stante, sempre in stretta relazione con gli altri, con e per gli altri.

Di questo parla questo denso romanzo: denso di emozioni, di scene esilaranti, di riflessioni, di qualche grande dispiacere. Di dolore e di amore. Così come abbiamo già visto in “Tanta vita“.

Il romanzo, con un taglio teatrale, si condensa in una notte, quella di Capodanno, dove la famiglia si riunisce: i flash back della voce narrante, servono ad annodare i fili che sembrano spezzati, a riempire i silenzi e gli sguardi che aleggiano sulle persone.

Amalia, la madre, aiutata dal figlio Fer (Fernando) – che è la voce narrante -, sta ultimando i preparativi per la cena che porterà la sua famiglia a riunirsi. In una Barcellona di periferia pronta a festeggiare la fine dell’anno e l’inizio del nuovo, nell’appartamento di Amalia, arriveranno la figlia Silvia, sola e tormentata dal passato, la figlia Emma orfana di una presenza del passato che cerca di riempire con il rumore della sua attuale compagna Olga, e lo zio Eduardo, eccentrico e viaggiatore, che con le sue boutades cerca di mascherare il vuoto affettivo della sua vita. Ci sono i cani: la cagnolina di Amalia Shirley e Max, l’alano tedesco di Fer. Ci sono anche gli assenti, tutti insieme coagulati nel posto a tavola apparecchiato, la sedia delle assenze: il padre, i compagni/e del passato, e la nonna Ester.

Palomas capodanno aperto

La nonna Ester è una presenza forte nonostante la sua assenza, è il polo positivo del passato, contrapposto a quello negativo rappresentato dal padre. È presente nell’immagine appesa in salotto – un grande quadro che la ritrae – e soprattutto nel cuore di Amalia e di Fer: il rapporto speciale con il nipote ha generato un bagaglio importante per lui, una valigia piena di tutto quello che gli servirà per affrontare le difficoltà, per cercare le risposte a tutti i perché e fare i conti con se stesso e le presenze-assenze della sua vita. Primo fra tutti il padre, il grande assente, l’antagonista contro cui tutti, nella famiglia, si sono scontrati.

Amalia è in trepidazione: la riunione familiare è un evento che la eccita e la preoccupa al tempo stesso ed anche Fer, sempre pronto a fare da spalla a tutti, condivide il suo stato d’animo e ripensa agli incidenti degli anni passati, quelle “bombe” che hanno reso l’atmosfera pesante, e che lui teme possano condizionare la serata.

“Nel vederla così – la sua faccia nella mia – capisco mamma e la sua voglia di tenerci tutti con lei, e so che qualunque cosa possa accadere stasera è già perdonata in anticipo, perché è quanto abbiamo imparato a fare.”

Fer ci rivela, attraverso i flash back, ciò che è accaduto, alternando il racconto col presente, dipanando la matasse delle vite dei suoi cari e di se stesso, in un fluire di scene e di situazioni. Riuniti attorno al tavolo, compresi in uno sguardo circolare, i volti rivelano storie, le rughe svelano dolori, sconfitte e tentativi di metterle alle spalle. E il racconto procede teso, incalzante, talvolta ironico e divertente, altre serio e profondo: un perfetto bilanciamento di umori che aggancia il lettore e lo tiene inchiodato alle pagine del libro.

“È questa la cosa che ci riesce meglio, nella nostra famiglia: ridere degli eventi proprio quando rasentano la catastrofe, quando l’abisso del pericolo ci fa sentire la sua voce, ipnotizzandoci dall’oscurità. Nella nostra famiglia – e qui non c’entra la nota stonata di papà -, le risate arrivano sempre puntuali e, proprio quando stiamo per cadere nell’abisso, ci trattengono e ci danno un po’ di respiro, ancora un po’ di tempo di cui siamo grati.”

Alejandro Palomas ha una grande abilità a concentrare tutto questo in un procedere per gradi, nel mostrare poco alla volta i personaggi, a svelarne la complessità e al tempo stesso a sorprendere il lettore dosando le rivelazioni con un passo ritmato. Con la sua scrittura aggiunge man mano dettagli, come a comporre un puzzle scegliendo con cura ogni tessera, posandola con attenzione, per assicurarsi che combaci col resto del disegno e aggiunga la sua piccola parte fino a delineare un tutto armonioso e coeso.

“Capodanno da mia madre” è una galleria di personaggi, così come lo è ogni famiglia, è un incrocio di vite che si alimentano a vicenda, a volte passando attraverso lo scontro e l’incomprensione, altre attraverso uno sguardo d’intesa, un abbraccio rassicurante. Ci sono le provocazioni e le riconciliazioni; c’è quella intesa sotterranea che emerge nei punti nodali della vita e rende reale e tangibile il concetto di legame familiare. C’è quel continuo alternarsi del lato A al lato B delle persone che spesso intorbida le acque, ma che chi ha voglia di capire riesce perfettamente a vedere come due lati della stessa medaglia. Perché, come si dicono Silvia e Fer, “Non si può trovare pace evitando la vita”.

“E allora penso che questa danza così ben ritmata, questo labirinto di gesti intrecciati naturalmente, questo linguaggio facile, riconoscibile, automatico …, tutto questo ci rende una famiglia, una storia comune, una comunità.”

A tenere insieme questa famiglia è Amalia, apparentemente ingenua e svampita, che si fa trascinare dall’amica Ingrid in situazioni improbabili, vogliosa di vivere in libertà la propria vita dopo avere vissuto all’ombra del marito; ci vede poco con gli occhi ma tanto col cuore. Sembra che le sue frasi siano dei nonsense – e a volte lo sono, producendo dei dialoghi surreali ed esilaranti – ma servono solo a partire da lontano, a prendere il discorso alla larga per poi arrivare, precisa e puntuale come un dardo ben scagliato, a cogliere al centro del cuore. La sua sensibilità le permette di leggere anche i segnali più deboli, gli indizi lasciati cadere in modo inconsapevole e il suo amore per i figli le dà la capacità di tenere insieme i cocci quando i vetri si frantumano.

Attorno al tavolo prendono posto Fer, reduce dalla fine di una lunga relazione amorosa che gli ha lasciato- oltre all’amato alano Max – una grande insicurezza e l’incapacità di riavviare la sua vita sentimentale; sua sorella maggiore Silvia, passata attraverso esperienze tragiche che hanno segnato la sua vita, rendendola rigida e maniaca del controllo, fragile come un cristallo; la sorella di mezzo Emma, anche lei alle spalle una perdita che non riesce a superare, legata sentimentalmente a Olga, “l’aggiunta”, come la chiama Amalia, col suo modo di fare da saccente, le perle e la borsa di Vuitton, sempre pronta a sbandierare il suo lavoro in banca e a introdurre i discorsi con “lascia che ti dica” o “esatto”. Infine lo zio Eduardo, fratello di Amalia, eccentrico avventuriero, legatissimo alla nipote Silvia.

Dunque un intreccio di vite appassionante e coinvolgente, tanto vero in quanto specchio delle dinamiche familiari che tutti conosciamo, dissacrante e commovente, che lascia liberare delle risate così come trattenere qualche lacrima.

“Ci resterà sempre il diritto di voler sapere di più, Fer”: l’eredità spirituale di nonna Ester.

L’incipit lo trovate qui.