Fugace

Un’idea di addio
virtuale ed effimera
e tuttavia infinita.
Un’idea passeggera di lacrime, abbracci
senza parole,
moltiplica i suoni, i cardini,
le soglie, le maniglie,
il delizioso movimento dei treni
e infine il silenzio dell’addio.

Una crosta traditrice
resta per sempre sulla banchina della 
memoria
nei commiati
irrevocabili.

Carmen Yáñez

Carmen Yáñez è la moglie di Luis Sepúlveda, lo scrittore. Si sono conosciuti quando erano adolescenti:

Avevo 15 anni, lui 18. Scriveva poesie, faceva teatro. Lo portò a casa mio fratello, che era pittore e suo amico. Un anno dopo ci fidanzammo. I miei genitori erano contrari: “Un poeta? Lascia perdere. Un tipo così non ha futuro”. Uscivo con lui di nascosto, i miei vennero a saperlo e mi impedirono di vederlo. Alla fine non ci restò che fuggire, come Romeo e Giulietta. E, subito dopo, era tempo di affrontare “seriamente” la situazione. Avevo appena compiuto 19 anni, ero piccola e magra, sembravo molto più giovane. Ci siamo sposati l’11 settembre del 1971. Undici settembre. Fu il giorno in cui il prete venne a casa dei miei genitori. Perché noi, in chiesa, non ci saremmo mai andati.

Una storia d’amore che ha visto le gioie ma anche l’inferno. Dal loro amore nasce il figlio Carlo, ma neanche due anni dopo in Cile succede il finimondo: Pinochet, con un golpe, l’11 settembre del 1973, prende il potere, Allende muore in circostanze mai chiarite, e il Cile precipita nell’orrore di una delle più sanguinarie dittature. Ne ho parlato a proposito del romanzo di Pedro Lemebel.

Fu la fine di tutte le nostre speranze. Avevamo un sogno collettivo: costruire il socialismo senza violenza. Dopo quel giorno, io e Lucho non potevamo più rimanere insieme. Troppo pericoloso. Lui militava nel partito socialista, faceva parte della guardia di Salvador Allende: temendo attentati, lo misero a controllare l’acquedotto di Santiago. Io stavo con il partito rivoluzionario comunista. Si viveva di ideali: solidarietà, amicizia, uguaglianza. C’era entusiasmo, voglia di cambiare.

“Lucho”, il lottatore, Luis, e “Pelusa”, la monella, Carmen, come migliaia di altre persone, vengono arrestati, separati, torturati. Carmen viene portata a Villa Grimaldi, la cattedrale della tortura, dove passarono più di quattromila persone, molte delle quali senza uscirne vive. Non sanno se l’altro è ancora vivo, patiscono la propria sofferenza e quella, ancor peggiore, dell’altro, il terrore strisciante di un destino inconosciuto. Per vie diverse, riusciranno a lasciare il Cile.

Tutta la mia vita è stata una storia di re-incontri. Con Lucho fu un ritrovarsi molto romantico ma anche molto teso. Io andai a vivere in Svezia con i miei due figli: quello avuto da lui, Carlo, e il mio più piccolo, Jorge. Venne a cercarmi, non mi trovò. Mi mandò delle rose rosse. Tornò per incontrare il figlio. Aveva una donna in Germania, voleva sposarla. Era passato troppo tempo, eravamo due persone diverse. Divorziammo, da buoni amici. Dopo qualche tempo, cominciammo a comunicare per telefono. Una chiamata, una seconda e un’altra ancora. Ci sentivamo per parlare di Carlo, ma finiva che si restava a chiacchierare per un’ora e mezzo. Mi mandava tutti i suoi manoscritti, ero la prima a leggerli. Credo lo facesse per impressionarmi. E finalmente nell’89, ci trovammo a Göteborg per un simposio. Fu molto triste. C’erano forse troppe aspettative, in realtà parlammo pochissimo: c’era come un grande vuoto tra di noi. Anche lui era strano, silenzioso. Così, ricominciammo a comunicare per lettera. Lettere bellissime, che custodisco ancora.

 La corrispondenza va avanti per diversi anni, fino a quando:

La moglie tedesca. Mi invita in Germania. È sola, mi racconta che Lucho parla solo e sempre di Pelusa. Che ama solo Pelusa. Due giorni dopo arriva lui. E lei si offre di tenermi per una settimana mio figlio Jorge. Così partiamo, io e Luis. Parigi. La città dell’amore.

Nel 2004 si risposano, trentatré anni dopo il primo matrimonio.

Prodigio

a Marcia Scantlebury

Se in quei giorni di ottobre
e di bende nere
quando davvero la paura
mordeva la carne
e noi custodivamo nomi
nelle pieghe del sudore
ti avessi toccato la fronte oltraggiata,
per curarti la ferita con l’acqua che oggi ci unisce,
non mi avresti creduto.

Mai fummo più vicine
alle rose
Ti ricordi quelle rosse
che paradossalmente crescevano lì,
nel cuore stesso del dolore?
Belle rose…
delle quali ci fu negato
il favore del profumo
ma non le tristi spine.

Se in quei giorni di ottobre
a Villa Grimaldi
quando neanche il mio olfatto
mi diceva che ti saresti svegliata,
Marcia,
ti avessi parlato
solo per consolarti
per curarti la ferita del viso
per liberare l’aria da un brutto sogno
per volgere lo sguardo all’indietro
prendendo il tempo per le corna
e ricostruire il velo di cipolla
che ci coprì
fino ad allora.
Se ti avessi fatto una promessa,
se avessi predetto
un invito, in una città
lontana, bella
San Marco, Venezia
la città del ritrovarsi
prodigioso.
Non mi avresti creduto

Non mi avresti creduto
perché la morte batteva le ali
là fuori
e la bontà taceva.