All’inizio non sapevo che Madame Rosa si occupava di me soltanto per riscuotere un vaglia alla fine del mese. Quando sono venuto a saperlo avevo già sei o sette anni e per me è stato un colpo sapere che ero a pagamento. Credevo che Madame Rosa mi volesse bene gratis e che ci fosse qualcosa tra noi due.. Ci ho pianto su per una notte intera ed è stato il mio primo grande dolore. Madame Rosa si è accorta che ero triste e mi ha spiegato che la famiglia non significa niente (..) Mi ha preso sulle ginocchia e mi ha giurato che io ero la cosa più cara che aveva al mondo, ma io ho pensato subito al vaglia e sono scappato via piangendo.

La vita davanti a sé, di Romain Gary (Émile Ajar), Neri Pozza editore prima edizione 2005, traduzione di Giovanni Bogliolo

Di questi tempi si parla molto di integrazione, di periferie multietniche: il panorama letterario offre molti buoni (non tutti) romanzi, alcuni eccellenti, sull’argomento. Romanzi scritti nel linguaggio di oggi, il miscuglio di gerghi e di lingue specifico e diverso da periferia a periferia, dove ciò che però rimane costante sono le storie spesso intrise di emarginazione, di disagio, di fratellanza tra chi si trova in condizioni critiche, di droga, di prostituzione. Qualcuno propone anche storie di riscatto, vite di chi è riuscito ad affermarsi. Temi non facili che producono romanzi che funzionano molto bene dal punto di vista della testimonianza, ma che a volte, nel loro crudo realismo, sono così cupi da lasciare sgomenti.

Il romanzo di cui vi parlo qui rientra in questo genere ma con alcune notevoli differenze: è stato scritto nel lontano 1975, ambientato nella banlieu di Belleville, a Parigi, presenta una realtà molto cruda ma lo fa con grande ironia e soprattutto con l’ingenuità, la leggerezza e lo humor involontario di un bambino di dieci anni, voce narrante e protagonista della storia. Un romanzo e un autore con una storia incredibile, di cui ho parlato, che già essa stessa è romanzo.

romain_gary foto

Un bellissimo romanzo, lo dico subito, perché è unico, cinico, ironico, spietato e commovente. Una storia che non fa sconti a nessuno, che non cerca di edulcorare niente, nemmeno le più basse e triviali situazioni; una storia dove non ci sono eroi, dove ci sono solo peccatori e nessun innocente; dove i ruoli non sono quelli convenzionali e il bene e il male non sempre hanno una identità chiara e definita. Un racconto che procede sul filo dell’umorismo, alleggerendo anche le situazioni più crude, senza sminuirle ma senza neanche compiacersi o scadere nel sentimentalismo.

Il protagonista è Mohammed, Momò per tutti: insieme ad altri bambini, è cresciuto a casa di Madame Rosa, una ex-prostituta ebrea che, dopo essersi ritirata dall’attività, ha messo su in casa sua una specie di asilo per i figli delle prostitute. Sono molti i bambini che vanno e vengono ma Momò è diverso: lui è lì da quando aveva tre anni e sua madre lo ha affidato a Madame ed è sparita, del padre (cosa abbastanza normale in queste situazioni, dove poche sono le certezze) non si sa nulla. Momò non ha nostalgia di sua madre, e dato che non lo viene mai a visitare o a riprendere, non ne custodisce nemmeno ricordi; non sa nemmeno di preciso quando è nato, perché Madame Rose ha falsificato i suoi dati tante volte, per evitare guai, e ora non si sa più quali siano quelli giusti. Non è nemmeno sicuro al cento per cento di essere arabo, ma a lui piace credere di esserlo.

Nella sua vita di monello di strada, filosofo e a volte cinico, scafato anche più della sua età, esperto di prostitute e protettori, ha due figure di riferimento: Madame Rosa e il signor Hamil. Madame Rosa è una settantenne ex prostituta ebrea polacca che si era trasferita in Francia e che durante l’occupazione nazista e il governo di Vichy nel luglio 1942 fu tra gli ottomila ebrei (di cui la metà bambini) che vennero richiusi nel velodromo, dove rimasero sotto il sole senza cibo né acqua per diversi giorni, prima di essere avviati ad Auschwitz. La donna, scampata al campo di concentramento, è ritornata a Parigi, a fare la vita; ora però pesa novantacinque chili, che deve trascinare sulle scale fino al sesto piano di un vecchio palazzo senza ascensore, e tiene il ritratto di Hitler sotto il letto per guardarlo nei momenti di sconforto e ricordarsi che ci sono cose ben peggiori. Da quando si è ritirata, ospita i bambini delle sue ex colleghe le quali, affinché non venga loro tolta la potestà sui minori, le pagano (non sempre) una specie di retta per tenerli lì.

Il signor Hamil è un vecchio, ex venditore ambulante di tappeti, musulmano osservante e ammiratore di Victor Hugo, di cui tiene sempre con sé una copia de “I miserabili”; Hamil nutre molto affetto per Momò e cerca di insegnarli tutto quello che sa, anche perché Momò a scuola non lo hanno voluto.

Intorno a loro c’è tutta una umanità varia e colorata, un miscuglio di provenienze, di lingue, di usanze, di mestieri: una città satellite di Parigi, dove di francese c’è ben poco, e dove l’unico inquilino francese “con le carte in regola” del palazzo di Momò è appunto un’eccezione.

C’è Madame Lola, un travestito senegalese, tatuato ed ex campione di boxe, con le tette “coltivate” che nutre un grande affetto per Madame Rosa e soprattutto per Momò, che vorrebbe come figlio. C’è il signor N’Da Amédée, protettore nigeriano che va da Madame Rosa a farsi scrivere lettere da mandare ai sui parenti in Nigeria: lettere in cui si inventa una vita diversa, splendida e ricca, senza bisogno di guardie del corpo per difendersi dagli jugoslavi o dalla polizia. C’è il signor Walumba, professione mangiatore di fuoco ed esperto di rituali buoni per scacciare il male e allontanare la morte, che insieme ai suoi amici, aiuta Momò a portare su e giù per le scale la vecchia Madame Rosa. E poi ci sono i bambini, Moïse, Banania, il Mahoute.

C’è il dottor Katz:

Il dottor Katz era ben noto agli ebrei e agli arabi nei paraggi di rue Bisson per la sua carità cristiana e curava tutti quanti dalla mattina alla sera e anche più tardi. Di lui ho un buonissimo ricordo, era l’unico posto dove sentivo parlare di me e dove mi esaminavano come se si trattasse di qualcosa di importante.

Momò è un personaggio unico, a cui la grande abilità dell’autore, in virtù del suo status di ragazzino, mette in bocca giudizi e osservazioni scevri da qualsiasi ideologia, frutto della convivenza tra mondi e culture diversi, accomunati dalle difficoltà, dalla povertà ma anche dalla voglia di vivere, di riscattare le proprie condizioni. Poetico, crudele, triste e divertente, questo incredibile romanzo è un inno all’amore, quello voluto e protetto, che non viene da vincoli familiari, ma dal cuore, quel moto dell’anima che porta una vecchia donna a prendersi cura di un bambino non suo e per il quale non riceve più alcun sostegno, e un bambino a prendersi cura di una vecchia malata che desidera morire per non prolungare le sue sofferenze. C’è tanta umanità nei gesti di Momò che si prodiga per l’anziana, come si fa nelle tribù africane di cui gli parlano i vicini, comunità nelle quali gli anziani  sono tenuti in grande considerazione e accuditi fino alla fine, mentre in Occidente vengono spesso abbandonati al loro destino o all’accanimento terapeutico. In anticipo sui nostri tempi, qui si parla della dolce morte, della possibilità per le persone di decidere quando scegliere di dire basta: il piccolo Momò lo ha capito e cerca di spiegarlo al dottor Katz, ma sarà solo lui a comprendere fino in fondo la richiesta di Madame Rosa e ad esserle vicino.

BANLIEUES UN AN APRES