Parente della morte

Io sono parente della Morte.
Amo l’amore morente,
amo baciare
chi se ne va.

Amo le rose malate,
le vogliose donne sfiorenti,
e i lucenti, malinconici
tempi d’autunno.

Amo il richiamo spettrale
delle ore tristi
e il fratello giocoso
della grande e santa Morte.

Amo coloro che partono,
che piangono e si destano
e, nei freddi mattini brinati,
i campi.

Amo la stanca rinuncia,
il pianto senza lagrime,
la pace, rifugio di saggi, di poeti
e di malati.

Amo i delusi, gl’infermi,
coloro che sono fermi,
gl’increduli, i tristi:
il mondo.

Io sono parente della Morte.
Amo l’amore morente,
amo baciare
chi se ne va.

 

Proteggo i tuoi occhi

Stringo con la mia mano
che invecchia, la tua mano,
e proteggo i tuoi occhi
con questi occhi che invecchiano.

Belva di spente età, mi bracca l’orrore,
sono arrivato da te
attraverso rovine di mondi,
e attendo, insieme a te, atterrito.

Stringo con la mia mano
che invecchia, la tua mano,
e proteggo i tuoi occhi
con questi occhi che invecchiano.

Non so perché né sino a quando
rimarrò qui con te:
ma stringo la tua mano
e proteggo i tuoi occhi.

 

Endre Ady PinterestEndre Ady era un poeta ungherese, nato in una famiglia calvinista aristocratica decaduta. Era nato con sei dita per mano, segno di eccezionalità ma anche di malaugurio, di un destino diabolico. Fu l’ ostetrica ad accorgersene e ad amputargli quello che avanzava. Per tutta la vita il poeta mostrò con orgoglio le sue cicatrici, che chiamava magiche.

Visse e studiò in Ungheria, abbandonando gli studi di Legge per diventare giornalista. Due donne gli furono fatali, la prima perché lo avvelenò. E’ lei la protagonista di un bellissimo racconto intitolato “Il bacio di Rosalia Mihaly“. Rosalia, che nasconde la vera identità di Maria Rienzi, visse solo ventisei anni. Fu “piccola, teatrale e virago”. Aveva i capelli rossi e rideva fragorosamente, secondo quanto si addice a una ballerina. “Non l’ ho mai vista Rosalia Mihaly”, scrive il poeta, “ma nessuna altra donna ha segnato la mia vita in modo più possente”. Si era invece invaghito di Marcella Kun, anche lei attrice, e le aveva promesso che se si fosse concessa avrebbe scritto per lei una bella recensione. Ma lei tentennava, spaventata dal suo ardore. “Io non mi ero mica messo a studiare l’ amore per sapere che diavolo fosse”, le diceva, “ma per consumarmici, per ridurmici in cenere, come più mi fa piacere”. Ma alla fine cedette. E lo contagiò. Una ricerca ossessiva delle origini della malattia, porta il poeta, attraverso un giornalista mediocre e volgare, fino alla tomba di Rosalia Mihaly, ultimo anello della catena. Così scriveva Ende Adry, e identica era la sua vita. La sifilide lo tenne in ostaggio tutta la vita. E l’ alcool accompagnò la sua autodistruzione.

poesia unghereseQuel bacio avvelenato divenne l’ immagine primaria della sua poesia, e insieme il diaframma che lo costrinse al di qua della vita che avrebbe voluto. Era un giornalista di successo e un poeta quasi sconosciuto, quando gli fu diagnosticata da un medico parigino. Era lì, nella ville lumiere dei poeti simbolisti – dove scopre le opere di Mallarmè, Verlaine, Rimbaud, Baudelaire, fratelli d’ arte e di insanità – insieme alla donna che amò perdutamente. Adel Brul, divenuta poi Leda nei canti che le dedicò, era la moglie di un eccentrico e ricco uomo d’ affari, Odon Diosy. “Aveva i capelli tinti di azzurro cupo, le scarpe, le calze dello stesso azzurro; si metteva del rossetto non soltanto sulle guance e sulle labbra, ma ne tingeva anche, rendendole simili all’ interno di una conchiglia, le narici dal disegno inconsueto sul naso imponente”. La descrive così Paolo Santarcangeli nella prefazione alla raccolta di poesie pubblicate da Lerici editore. Una femme fatale, una donna alta provocante sensuale e colta. Lei lo trasformò da giornalista di talento a poeta grandissimo, tra i più importanti della cultura austro-ungarica. Profeta di un mondo prossimo alla dissoluzione, cantore di passione e desiderio, sensuale e potentissimo. “Credo di essere la coscienza dell’ odierna magiarità colta” scriveva Endre Andy di sè dopo la pubblicazione della raccolta di poesie che lo consacrò al successo e lo travolse insieme di critiche e riprovazione (Új ver sek, Poesie nuove), – “ma questa coscienza non può essere sempre pulita”. Rimane a Parigi per un anno, con Leda e il marito, poi torna in Ungheria. Ma nel 1906 ripartono insieme e viene per la prima volta in Italia. Per una crociera che parte da Trieste e arriva fino in Sicilia. Sarà di nuovo a Roma nel 1911 ma il suo amore con Leda, sempre tormentato e funestato dal male e dalla sua vita disperata, sta per finire.

L’ anno successivo lei lo lascia per un altro uomo, e lui, su consiglio dell’ amico Sándor Ferenczi, allievo prediletto di Freud, decide di ricoverarsi in un ospedale per malattie mentali. “Siamo in piedi, rigidi e dimenticati/ sull’ orlo di un precipizio selvaggio/ l’ uno all’ altra attaccati,/ né un lamento lacrima o parola/per precipitare basta una mossa/come legami di carne e sangue/ci proteggono le nostre labbra/blu e tremanti, ci tengono attaccati/finche mi baci non abbiamo parole/ma dì un parola e cadiamo entrambi”, scrive in una sua poesia famosa che risale a quel periodo. Si consolerà sposando qualche anno dopo la giovanissima ammiratrice Beruka Bonza, la Csinszka delle sue poesie. Con lei si trasferisce in Transilvania.

Nel frattempo, il 28 giugno 1914, lo studente bosniaco Gavrilo Princip uccide l’ arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Endre Ady scrive, si spende contro la catastrofe del conflitto in agguato, ma invano. Un mese dopo l’ Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia, dando inizio alla prima guerra mondiale. La sconfitta militare, avrà come conseguenza la fine dell’ Impero. Nel 1918, in seguito al Trattato Versailles, nascono Austriae Ungheria come stati autonomi, e insieme la Cecoslovacchia e un nuovo assetto dei Balcani che diventarà la Yugoslavia. I nuovi confini costringono un quarto della entia magiara a vivere fuori dalla nuova nazione ungherese. La Transilvania diventa rumena, e anche il paese natìo di Endre Ady, Érmindszent, che alla morte del poeta verrà a lui intitolato. Nella nuova repubblica, il poeta viene eletto presidente della Accademia Vorosmarty, la più importante istituzione culturale del paese. Ma le sue condizioni di salute non gli permisero neanche di tenere il discorso di insediamento. Muore il 27 gennaio 1919 e i suoi funerali furono seguiti da una folla enorme che lo acclamava come il poeta simbolo della nuova nazione. Lui lasciò scritto soltanto che voleva essere dimenticato, come una domanda senza risposta. 

ELENA STANCANELLI su Repubblica