Assia Djebar è stata la prima scrittrice algerina a tematizzare le problematiche sociali e esistenziali delle donne in un paese islamico; è fra gli scrittori del Maghreb più conosciuti nel mondo, tradotta in numerose lingue; sostenitrice dell’emancipazione femminile nel mondo islamico, attivista durante la guerra di liberazione algerina, prima donna regista nella cinematografia algerina, vincitrice al Festival del Cinema di Venezia del Gran Premio della Critica Internazionale.

Nelle sue stesse parole, possiamo cogliere il suo percorso umano e letterario:

Una scrittura di erosione, di smottamento nel buio e nell’oscurità! Una scrittura “contro”: il “contro” dell’opposizione, della rivolta, talora muta, che ti fa tremare e attraversa tutto il tuo essere. Contro, ma anche il suo contrario, vale a dire una scrittura dell’avvicinamento, dell’ascolto, del bisogno di essere vicini a …, di dare perimetro a un calore umano, a una solidarietà, bisogno senza dubbio utopico, poiché vengo da una società dove i rapporti tra uomini e donne, al di fuori dei legami familiari, sono di una durezza, di un’asprezza che lasciano senza voce!
All’inizio, al primo e precoce manifestarsi della mia attività di scrittrice, fu il disegnarsi di uno spazio, l’aprirsi improvviso di un orizzonte, un’occasione inaspettata.
È chiaro in effetti che non sarei mai stata una scrittrice se, a dieci o undici anni, non fossi potuta andare alle superiori; questo piccolo miracolo fu opera di mio padre, insegnante, uomo della rottura e della modernità rispetto al conformismo musulmano che, quasi immancabilmente, mi avrebbe destinata alla reclusione delle ragazzine in età da marito.
Né, cinque o sei anni più tardi, mi sarei dedicata con ardore alla letteratura (e la cosa può sorprendere) se non mi fosse piaciuto camminare per le strade della città come una persona tra le altre, una passante, una voyeuse, un maschio mancato e, ancora oggi, come una donna che va semplicemente a spasso. Quella del muoversi, dello spostarsi, è per me la prima delle libertà, la possibilità sorprendente di disporre di sé per andare e venire, dal dentro al fuori, dal luogo privato ai luoghi pubblici e viceversa…. Per un’adolescente, oggi, qui in Europa, è una cosa da nulla. Per me, agli inizi degli anni Cinquanta, fu un lusso incredibile….

Ho ripreso questa citazione da un ampio articolo che era apparso su “Doppio zero” e che trovate qui.

Il suo primo romanzo che ho letto è stato “Donne d’Algeri nei loro appartamenti” del 1980, apparso in Italia nel 1988.

Un prezioso affresco dedicato alle donne algerine sullo sfondo di un secolo di storia: dalla fine dell’Ottocento al presente, in un coro di voci, grida, preghiere, risate e sussurri che chiedono ascolto. Djebar ci offre la realtà complessa di un paese islamico dove le donne hanno lottato per liberare la patria dal dominio coloniale, episodi e frammenti in cui la riflessione critica si alterna alla suggestione del racconto e l’onda emotiva s’intreccia con la lucidità analitica.

Avrei potuto ascoltare queste voci in una qualsiasi lingua non scritta, non registrata, trasmessa solo per mezzo di catene di echi e di sospiri: arabo, iraniano, afgano, berbero o bengali, perché no, ma sempre con un timbro femminile, con labbra che parlano sotto una maschera,; una lingua priva di squame per non essere mai uscita alla luce del sole, per essere stata salmodiata, declamata, urlata, recitata in teatro, ma sempre con la bocca e gli occhi immersi nel nero.

Vi consiglio anche “Bianco d’Algeria” e “Lontano da Medina“.

Bianco d’Algeria“, in Italia pubblicato nel 1998, è in ricordo di tre amici dell’autrice scomparsi e rievocati insieme ad altri sedici scrittori d’Algeria.

In questo racconto ho voluto rispondere a un’esigenza di memoria immediata: la morte di amici intimi (un sociologo, uno psichiatra e un drammaturgo); raccontare qualche frammento di una vecchia amicizia, ma descrivere anche, per ciascuno, il giorno dell’assassinio e dei funerali – quel che ciascuno di questi tre intellettuali rappresentava, nella sua singolarità e autenticità, per i familiari, per la città d’origine, per la propria tribù. 

Dagli episodi inediti della guerra d’indipendenza alla crisi degli anni Novanta, attraverso una serie di riflessioni, Djebar percorre la storia millenaria di una cultura sospesa tra passato e presente, ricca di tutte le contraddizioni che la coesistenza di popoli diversi comporta. E la storia di questa civiltà sembra svolgersi in un bianco accecante, colore della morte nella tradizione araba, ma anche simbolo di pace e di silenzio, riverbero del sole sulla polvere dell’Algeria.

Per completare la comprensione dell’autrice, consiglio anche la lunga intervista di Renate Siebert raccolta nel volume “Andare al cuore delle ferite“, uno strumento completo e vibrante.

assia djebar

Qui , su Enciclopedia delle donne, trovate una bella ed esaustiva biografia e bibliografia.