Il giorno in cui ammazzarono il Txato pioveva. Giorno feriale, grigio, di quelli che sembrano continuare ad allungarsi, in cui tutto è lento, bagnato e la mattina è uguale al pomeriggio. (..) Il Txato non sapeva, come poteva saperlo?, che vedeva oggetti, sbrigava faccende, aveva pensieri per l’ultima volta.

Patria, di Fernando Aramburu, Ugo Guanda editore 2017, ed. originale 2016, traduzione di Bruno Arpaia. Vincitore, in Italia, del Premio Strega europeo

Ho impiegato un paio di settimane per portare a termine la lettura di questo romanzo, più di seicento pagine, dense e mature, sature di Storia e di storie private, di ideali, di ideologie e di violenza, ma anche di sentimenti, di relazioni familiari, di incomprensioni e litigi, così come di slanci e affetti.

Un romanzo come un’epopea: le vicende di un popolo, quello basco, del suo orgoglio, della sua cultura e della sua lotta – legittima o violenta – coniugate con quelle di due famiglie, osservate con la lente d’ingrandimento.

Due famiglie legate da una salda amicizia: quella tra i due mariti, Joxian e il Txato, uniti dalla passione per la bicicletta e i pranzi del loro gruppo; quella tra le mogli, Bittori e Miren, che si confidano e vanno a fare compere a San Sebastián ogni settimana, in corriera, dal loro paese alle porte della città, uno dei bastioni del nazionalismo della provincia di Guipúzcoa. E quella tra i figli, cresciuti insieme. Tutto bene, finché il Txato, piccolo imprenditore nel settore dei trasporti, viene preso di mira e taglieggiato dall’Eta per finanziare la lotta (pratica molto diffusa). Il Txato all’inizio piega la testa e paga ma poi si ribella, decretando la sua condanna a morte e la fine dell’amicizia tra le due famiglie, perché, nel frattempo, Joxe Mari, figlio di Joxian, è entrato a far parte della lotta armata.

Il Txato viene ucciso e alla sua famiglia non viene testimoniata solidarietà, nemmeno dagli amici più intimi, o dai dipendenti, niente: il vuoto attorno, come se la vittima avesse meritato quella fine, o meglio, come se tutti – persino i vecchi amici – avessero paura a mostrarsi solidali. Dall’inizio della persecuzione, e per molti anni dopo la sua morte, la famiglia del Txato sarà costretta ad andarsene dal paese; persino a distanza di tempo, quando Bittori ormai anziana, vorrà rimettere piede in paese, quando ormai si sarà compiuta la pacificazione e le armi non spareranno più, i suoi concittadini le saranno ostili, o indifferenti nel migliore dei casi, e la sua vecchia amica Miren, le getterà addosso tutto il suo (ingiustificato) odio. Ma ben si capisce da dove venga tutto quel livore: il figlio Joxe Mari, dopo anni di attentati e latitanza, viene arrestato, torturato e imprigionato, condannato a 126 anni di carcere. E le vittime danno fastidio. A distanza di tempo, ad armi deposte, tutti soffrono: le vittime, certo, ma anche i carnefici. Così, tra di loro, si confidano Xabier e Nerea, fratello e sorella, figli di Bittori e del Txato:

«Un giorno non molto lontano, in pochi ricorderanno quello che è successo.»

«Non farti cattivo sangue. È la legge della vita. Alla fine vince sempre l’oblio.»

«Ma non c’è motivo per cui dobbiamo diventare suoi complici.»

«Non lo siamo. La nostra memoria non si cancella con l’acqua. E vedrai come a noi vittime rinfacceranno che ci rifiutiamo di guardare al futuro. Diranno che cerchiamo vendetta. Alcuni hanno già iniziato a dirlo.»

«Diamo fastidio.»

C’è chi non si dà pace, come Bittori, che vuole conoscere la verità e vuole che le si chieda perdono. Ecco come lo asserisce durante una conversazione con sua figlia Nerea:

N«Visto che siamo in sincerità, ho saputo che stai cercando di far sì che il figlio di Miren ti chieda perdono e che Arantxa ti sta dando una mano. È vero?»

B«Perché credi che sono ancora viva? Ho bisogno di quel perdono. Lo voglio e lo pretendo, e fin quando non lo avrò non penso di morire.»

N«Hai un orgoglio da far paura.»

B«Non è orgoglio. Non appena metterete la lapide sulla tomba e sarò con il Txato, gli dirò: quell’idiota si è scusato, adesso possiamo riposare in pace.»

Così come c’è chi vorrebbe metterci una grande pietra sopra e ricominciare a vivere. E chi alla lotta ha sacrificato la vita e si domanda se ne sia valsa la pena. Come Joxe Mari, che dispera di potere mai uscire dal carcere.

«Ti  chiedi: ne è valsa la pena? E per tutta risposta uno si ritrova con il silenzio di questi muri, la faccia sempre più vecchia nello specchio, la finestra con il suo pezzettino di cielo che gli ricorda che ci sono vita e uccelli e colori là fuori, per gli altri. E se si domanda cos’è che ha sbagliato, risponde: niente. Si è sacrificato per Euskal Herria. Molto bene, ragazzo. E se se lo domanda di nuovo, risponde: non sono stato furbo, mi hanno manipolato. Se ne pente? Ci sono giorni di crollo emotivo. Allora gli dispiace di avere fatto certe cose. E così un anno e un altro e poi un altro fino a perderne il conto.»

Questo lungo romanzo è scritto con grande maestria: dal punto di vista narrativo, la storia si snoda attraverso l’alternarsi di capitoli brevi (125) e personaggi, salti temporali e geografici. Una narrazione in movimento, fluida, che gira intorno ai protagonisti facendoli vedere sempre più da vicino, spingendo l’introspezione fino a mettere il lettore a fianco dei personaggi e dentro la storia.

Molto belle anche le descrizioni paesaggistiche e le atmosfere, rese in modo così realistico, da creare nel lettore l’illusione di trovarsi in quei luoghi. I nuvoloni che si muovono nel cielo, creando giochi di luce e ombra, la incessante pioggerellina, gli acquazzoni, l’asfalto lucido. Le vie vuote del paese quando deve accadere qualcosa, la folla vociante delle manifestazioni a cui bisogna partecipare e farsi vedere. Le scritte minacciose sui muri, condanne a morte quando su di un nome compare un mirino. L’omertà che dilaga, l’osteria che ostenta le foto degli arrestati e raccoglie denari per le loro famiglie. Il prete che fomenta gli animi. Gli arresti, le torture. E chi cerca di tenersi alla larga dalla lotta, come Gorka, il fratello di Joxe Mari, come Nerea e Arantxa, che lasciano il paese per non farsi risucchiare loro malgrado da quello che sembra essere un dovere di ogni giovane basco. Anni di piombo, di paura, di morte.

Aramburu compie con questo romanzo un lungo percorso attraverso gli anni insanguinati mostrandoci come essi abbiano inciso sulla vita di tutti i giorni, della gente comune, di chiunque vivesse in quei territori e dovesse trovare un modo per rimanere a galla. Il romanzo ha ricevuto anche aspre critiche, secondo le quali la sua posizione sarebbe sbilanciata completamente contro le ragioni della lotta (non i mezzi, badate bene, ma il fine: e qui ci sarebbe molto da dire…). Leggendolo, personalmente, mi è apparso molto chiaro quanto l’autore voglia prendere le distanze dalla violenza cieca, che anziché sostenere le ragioni culturali e storiche del desiderio di autonomia e indipendentismo dei Paesi Baschi, gli hanno a lungo nuociuto. Come per sua stessa affermazione, non si tratta di un libro propagandistico; Aramburu vuole mostrare delle persone vere, attraverso il loro spessore umano, le loro debolezze, anche attraverso le distanze, e come hanno vissuto quel clima.  E un commento lo fornisce attraverso un personaggio che verso la fine compare sulla scena e che sembra essere il suo alter ego: uno scrittore che ha scritto un libro sull’argomento e che parla ad una conferenza:

«Ci sono libri che ti crescono dentro nel corso degli anni in attesa dell’occasione opportuna per essere scritti. Il mio, di cui sono venuto a parlarvi oggi, è uno di questi. (..) E questo progetto di elaborare, attraverso la finzione letteraria, una testimonianza delle atrocità commesse dalla banda terrorista, nel mio caso nasce da una doppia motivazione. Da un lato, l’empatia che provo per le vittime del terrorismo. Dall’altro, il rifiuto senza remore che mi suscitano la violenza e qualunque aggressione rivolta contro lo Stato di Diritto. (..) Ho scritto, dunque, contro la sofferenza inflitta da alcuni uomini ad altri, cercando di mostrare in cosa consista questa sofferenza e, ovviamente, chi la generi e quali conseguenze fisiche e psichiche provochi nelle vittime sopravvissute. (..) Ho scritto senza odio contro il linguaggio dell’odio e contro la smemoratezza e l’oblio tramati da chi cerca di inventarsi una storia al servizio del proprio progetto e delle proprie convinzioni totalitarie. (..) Ho cercato di evitare i due pericoli che ritengo più gravi in questo tipo di letteratura: i toni patetici, sentimentalistici, da un lato; dall’altro, la tentazione di fermare il racconto per prendere in maniera esplicita una posizione politica.»

 

In un’intervista pubblicata su “La Repubblica“, alla domanda se un libro così lo si sarebbe potuto scrivere quando l’Eta ancora ammazzava, Fernando Aramburu, basco, figlio di una famiglia operaia di San Sebastián, risponde così:

«No, perché il romanzo parte proprio da quando fu annunciata la fine della violenza. I personaggi rifanno i conti con il passato in una fase storica nella quale non ci saranno altri morti e quel passato è diventato in qualche modo oggettivabile. La cessazione degli attacchi era una condizione necessaria per raccontare questa storia. Nuovi attentati mi avrebbero costretto a reimpostare completamente il libro».

Ho letto con partecipazione questo romanzo, mi ha coinvolto personalmente perché è un vissuto che ho toccato con mano nelle tante amicizie con persone di quei luoghi. Me lo hanno suggerito loro stessi e, con loro, tiro un sospiro di sollievo che tutto questo possa ora essere alle spalle, e si possa aprire un futuro di pace.

Per capire la situazione storico-politica, fornisco alcune sintetiche informazioni.

I Paesi Baschi, come la Catalogna, alla vigilia della Guerra Civile spagnola, si schierarono con la Repubblica e ciò determinò la dura repressione franchista. Dopo circa vent’anni di dittatura, l’organizzazione nacque dalla rabbia e dalla frustrazione tra i baschi, che hanno una propria lingua e cultura, e dalla repressione politica ordinata dal generale Francisco Franco. “L’Eta, acronimo di Euskadi Ta Askatasuna che in euskera, la lingua basca, significa “Patria basca e libertà“, fu fondata nel 1958 da un gruppo di militanti indipendentisti espulsi dal Partito nazionalista basco. L’organizzazione terroristica basca era caratterizzata dalla interpretazione guerrigliera del marxismo, avendo come riferimenti la Cuba di Castro e Guevara ed il Vietnam dei Vietcong. Negli anni Settanta, l’Eta compì molte azioni, tra cui la più sensazionale fu l’uccisione dell’ammiraglio Luis Carrero Blanco, designato successore di Franco alla carica di Primo Ministro. Nonostante, dopo la morte di Franco nel 1975, la Spagna si avviasse verso un processo di democratizzazione, che garantì autonomie ai Paesi Baschi, tra cui la costituzione di un corpo di Polizia indipendente, l’Eta non decretò il cessate il fuoco, ma mantenne forte la sua identità terroristica, uccidendo, solo nel 1980, un centinaio di persone, quasi tutti militari della Guardia Civil. Negli anni Novanta, l’Eta cercò di realizzare due attentati di grande impatto, contro il futuro premier José Maria Aznar e contro il re Juan Carlos: entrambi fallirono. Alla fine degli anni Novanta fu rapito e ucciso il giovanissimo leader del Partito Popolare Basco; questo brutale assassinio che colpiva un politico favorevole all’indipendenza basca, determinò una grande e negativa ondata di proteste popolari contro l’organizzazione terroristica. Il bilancio delle vittime provocate dalla rivolta dell’Eta è di quasi mille morti e migliaia di feriti, tra cui politici, imprenditori e cittadini comuni.

Eta cessate il fuoco
Tre leader dell’Eta posano davanti al simbolo del gruppo. (Gara Via Getty Images)

All’inizio di maggio di quest’anno, il gruppo ha annunciato il suo definitivo scioglimento e ha chiesto pubblicamente scusa per le vittime e le sofferenze causate.

Aramburu fotoFernando Aramburu, nato a San Sebastián nel 1959, ha studiato Filologia ispanica all’Università di Saragozza e negli anni Novanta si è trasferito in Germania per insegnare spagnolo. Dal 2009 ha abbandonato la docenza per dedicarsi alla scrittura e alle collaborazioni giornalistiche. Ha pubblicato romanzi e raccolte di racconti, che sono stati tradotti in diverse lingue e hanno ottenuto numerosi riconoscimenti.

Qui potete leggere l’incipit.