La sua statura superava quella di un uomo normale ed era tanto magro che sembrava più alto. Aveva gli occhi acuti e penetranti; il naso affilato e un po’ adunco conferiva al suo volto l’espressione di uno che vigili, salvo nei momenti di torpore di cui dirò. Anche il mento denunciava in lui una salda volontà, pur se il viso allungato e coperto di efelidi – come sovente vidi di coloro nati tra Hibernia e Northumbria – poteva talora esprimere incertezza e perplessità. Mi accorsi col tempo che quella che pareva insicurezza era invece e solo curiosità, ma all’inizio poco sapevo di questa virtù, che credevo piuttosto una passione dell’animo concupiscibile, ritenendo che l’animo razionale non se ne dovesse nutrire, pascendosi solo del vero, di cui (pensavo) si sa già sin dall’inizio.  (..) poteva egli avere cinquanta primavere ed era dunque già molto vecchio, ma muoveva il suo corpo instancabile con una agilità che a me sovente faceva difetto. La sua energia pareva inesauribile quando lo coglieva un eccesso di attività. Ma di tanto in tanto, quasi il suo spirito vitale partecipasse del gambero, recedeva in momenti di inerzia e lo vidi per ore stare sul suo giaciglio in cella, pronunciando a malapena qualche monosillabo, senza contrarre un solo muscolo del viso. In quelle occasioni appariva nei suoi occhi un’espressione vacua e assente, e avrei sospettato che fosse sotto l’impero di qualche sostanza vegetale capace di dar visioni, se la palese temperanza che regolava la sua vita non mi avesse indotto a respingere questo pensiero.

Non nascondo tuttavia che, nel corso del viaggio, si era fermato talora sul ciglio di un prato, ai bordi di una foresta, a raccogliere qualche erba (credo sempre la stessa): e si poneva a masticarla con volto assorto. Parte ne teneva con sé, e la mangiava nei momenti di maggior tensione (e sovente ne avemmo all’abbazia!). Quando una volta gli chiesi di che si trattasse, disse sorridendo che un buon cristiano può imparare talora anche dagli infedeli; e quando gli domandai di assaggiarne, mi rispose che, come per i discorsi, anche per i semplici ve ne sono di paidikoi, di ephebikoi e di gynaikoi e via dicendo, così che le erbe che sono buone per un vecchio francescano non son buone per un giovane benedettino.

Qualche volta passava tutta la giornata muovendosi per l’orto, esaminando le piante come fosse crisopazi o smeraldi. (..) Altre volte stava un giorno intero nella sala grande biblioteca sfogliando manoscritti come a cercarvi null’altro che il suo piacere.

 

Se c’è un personaggio letterario che ho amato immensamente, quello è Guglielmo da Baskerville, che nel mio immaginario rimane indissolubilmente legato al volto affascinante di Sean Connery. Se è vero che “Il nome della rosa” è il migliore romanzo scritto da Umberto Eco, è altrettanto vero che Guglielmo è uno dei personaggi più riusciti della nostra letteratura. E non a caso.

Eco

Guglielmo da Baskerville è il vero eroe del romanzo. Ex inquisitore, erudito frate francescano, al momento della storia narrata nel romanzo, viene inviato come consigliere della corte imperiale presso una abbazia benedettina nell’Italia del nord, col compito di moderare una riunione tra i delegati del papa e quelli dell’imperatore. Il tema sul quale si dibatte è la sospetta eresia di una congregazione francescana. Materia su cui Guglielmo sa come muoversi, evidentemente.

Mentre è nell’abbazia in compagnia del suo novizio Adso (voce narrante della storia) si trova, con lui, ad indagare su una serie di omicidi che avvengono nell’abbazia.

Guglielmo è un po’ Sherlock Holmes, come ci suggerisce lo stesso autore ammiccando a “Il mastino di Baskerville” di Sir Arthur Conan Doyle. In comune i due personaggi hanno l’aura di autorità, le capacità deduttive e anche l’indulgere nell’uso di droghe, come ci dice lo stesso Adso e come sappiamo di Sherlock Holmes, che era cocainomane. Hanno caratteristiche fisiche simili e un valido assistente. E la scena iniziale in cui Guglielmo descrive accuratamente un cavallo che non ha mai visto, facendo appello ad alcuni indizi e alle sue capacità deduttive, tanto stupiscono gli astanti e tanto suggeriscono l’adesione alle teorie filosofiche di un suo modello, maestro ed amico.

E questo modello con cui Guglielmo è imparentato ( o se vogliamo, di cui è l’alter ego), è il filosofo e teologo Guglielmo di Ockham, francescano e inglese, accusato di eresia, poi assolto dal papa, in seguito scomunicato per le sue idee sulla povertà evangelica. Morì probabilmente a causa della peste, come Guglielmo da Baskerville, a quanto narra Adso:

Il mio maestro mi diede molti buoni consigli per i miei studi futuri. Poi mi abbracciò forte, con la tenerezza di un padre, e mi congedò. Non lo vidi più. Seppi che era morto durante la grande pestilenza che infierì per l’Europa verso la metà di questo secolo. Prego sempre che Dio abbia accolto la sua anima e gli abbia perdonato i molti atti d’orgoglio che la sua fierezza intellettuale gli aveva fatto commettere.

Ed è proprio dalla dottrina di Guglielmo di Ockham, dalla sua logica derivante dal nominalismo relativista, che il nostro personaggio mutua gli strumenti per avere successo nell’indagine sulle morti e che lo contrappone al tomista Bernardo Gui. E da cui si arriva al titolo del romanzo:

Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus: La rosa originaria – la presunta essenza della rosa – consiste in un nome, noi non abbiamo che nudi nomi

E dunque Eco conferisce al suo “eroe” Guglielmo da Baskerville, la modernità del relativismo scettico:

“l’unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità”

potendo così e finalmente fare a meno dei roghi  …

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