In questi giorni in cui in Grecia, ad Atene e sulla costa, si sta consumando una tragedia immensa, è difficile trovare le parole per esprimere il dolore che si prova nel vedere quelle terribili immagini, e nel pensiero che tante vite umane (ed animali, non dimentichiamolo) siano andate incontro ad una morte atroce. Si possono esprimere solo il cordoglio e la solidarietà.

Pubblico un articolo che era uscito sul CorrSera qualche anno fa, in occasione dell’uscita del volume «Poeti greci del Novecento» (Meridiani Mondadori).  La Grecia, che è stata la culla della nostra cultura, continua ad esserlo.

 

In pochi altri Paesi europei la poesia ha goduto di una considerazione e di un rispetto pubblico paragonabili a quelli che le sono stati riservati nella Grecia moderna. Non penso solo alle innumerevoli plaquettes, curatissime nella carta, nei caratteri tipografici e nelle illustrazioni, allineate sugli scaffali delle mille librerie di Atene e Salonicco; né solo al numero ragguardevole di dilettanti che scrivono versi, o alle frequenti raccolte e ristampe degli opera omnia di lirici non sempre di prima grandezza. Che la poesia goda di un singolare prestigio traspare anzitutto dai suoi echi nel discorso pubblico (financo nei titoli dei giornali), dai readings organizzati ad ogni livello, dalla popolarità di alcuni testi recitati o cantati da generazioni di giovani in momenti d’amore, di disperazione o di guerra, dalla gelosa fierezza con cui l’uomo della strada serba la memoria dei grandi cantori del suo Paese. La rispettosa, quasi pudica ammirazione che accompagna la qualifica di piitìs (che è sempre l’antico poietès, «colui che fa») assomiglia a quella destinata ai nomi dei compositori di tango nei barrios di Buenos Aires, o ai maestri di ikebana per le vie di Kyoto.

Nel corso del XX secolo (e comunque almeno fino al 1975) la poesia ha costituito in Grecia uno spazio pubblico privilegiato, meno elitario che altrove, senz’altro anche in virtù di una vicenda storica assai peculiare nel panorama europeo, benché non scevra di analogie con le sorti di altri Paesi del Sud, in primis la Spagna, il Portogallo e l’Italia. Votata dapprima alla controversa definizione della memoria e dell’identità culturale di una nazione giovane (lo Stato moderno fu proclamato ufficialmente non prima del 1829), poi alla riflessione e alla critica su immani tragedie collettive (basti pensare alla catastrofe micrasiatica del 1922, alla dittatura di Metaxàs del 1836-41, all’occupazione tedesca del 1941-44, alla guerra civile del 1945-49, alla dittatura dei colonnelli del 1967-74), la poesia in Grecia non si è ridotta (non ha potuto ridursi) all’espressione anarchica e monadica di un sentimento personale, non si è confinata nell’ardua lirica d’avanguardia, né ha smarrito i vincoli spazio-temporali con il mondo esterno.

Al contrario, i versi sono rimasti ben piantati entro un quadro di riferimento collettivo, a cominciare dal loro carattere saliente: la lingua. Se la poesia è per definizione il genere letterario in cui il significante e dunque la scelta linguistica assumono il peso precipuo, appare chiaro che solo la poesia poteva precipitare, concentrare e sublimare appieno le tensioni e le contraddizioni di un Paese solcato da una secolare diglossia tra lingua «pura» modellata sul greco antico e lingua «popolare» frutto di secoli di evoluzione parlata (in termini moderni, katharèvusa contro dimotikì). Un Paese nel quale la prima dignità letteraria dell’idioma «demotico» aveva di fatto coinciso con la conquista dell’indipendenza politica, e nel quale fino al 1975 la scelta delle parole – a scuola come in Parlamento, all’ufficio postale come sui giornali – è stata ipso facto una scelta politica, o meglio, come lucidamente argomentava Ghiorgos Seferis, una responsabilità civile.

Non si fraintenda: molta poesia «intimistica» è stata scritta in Grecia, e molti autori hanno evitato di militare personalmente in arene pubbliche o ideologiche che ritenevano poco consone alla loro tempra o alla loro arte. In fondo, a questa categoria appartiene anche il poeta più grande di tutti, quello che esula da tutti gli schemi, quello che non si lascia inquadrare in alcun orizzonte critico, storico o anche solo geografico: l’alessandrino Kostandinos Kavafis. Tuttavia, si ha l’impressione che proprio il peculiare statuto di nobiltà della poesia in quanto genere letterario abbia consentito anche a lirici «ermetici», surrealisti o esistenzialisti di godere di un’eco più vasta, di essere apprezzati – anche occasionalmente – da un pubblico più largo ed entusiasta, e di divenire figure di riferimento assai più seguite dei loro colleghi prosatori; solo negli ultimi vent’anni si è assistito a una inversione di tendenza, con il largo successo di romanzieri e giallisti.

Non è un caso che in Grecia, forse più frequentemente che in ogni altro Paese europeo (sono stati contati 11 colpi di Stato, tentati o riusciti, in circa 70 anni), regimi autoritari o francamente dittatoriali abbiano tacitato, combattuto o confinato gli autori di poesia (il caso più noto è quello di Ghiannis Ritsos, ma perché dimenticare le tante vittime illustri della guerra civile o, prima ancora, la politica culturale fascista di Metaxàs?): nel fornire così una testimonianza indiretta della loro autorità pubblica, simili ostracismi o censure hanno inevitabilmente interferito con il libero sviluppo dell’arte. In quei frangenti, l’opzione comunista, che fu di gran lunga prevalente all’interno dell’intelligentsija greca, non rispondeva soltanto all’aspirazione verso un mondo migliore, a ideali di giustizia sociale o a pulsioni egualitarie, ma divenne ben presto – nell’assenza di un centro moderato o, specie dopo la fine dell’esperienza di Venizelos, di un vero partito liberale – l’unica opzione politica e culturale alternativa alla reazione o alla dittatura, e dunque anzitutto una scelta quasi obbligata (ancorché inevitabilmente settaria) per gli oppositori dei regimi più biechi.

Più in generale, gli intellettuali disincantati hanno sempre riconosciuto l’assenza di una vera coscienza culturale condivisa (al di là di certi vieti luoghi comuni nazionalistici, peraltro appannaggio dei peggiori), e per converso l’assoluta necessità di un progresso morale e civile del popolo greco («il più ostile alla bruttezza», secondo Odisseas Elitis). Un progresso volto a preservare bensì il meglio del suo carattere e delle sue secolari e multiformi tradizioni, frutto di incroci, di viaggi, commerci e continui confronti con l’altro, ma anche a sconfiggere i tratti che più allontanano il Paese dal resto dell’Europa: la corruzione diffusa, l’omertà, le pulsioni plebiscitarie, l’impulso a risolvere i conflitti con l’uso della violenza, persino (specie nel secondo dopoguerra) una strisciante e perniciosa forma di individualismo.

Non è che non veda le analogie fra queste ultime problematiche e certe caratteristiche dell’Italia contemporanea: ambedue queste nazioni, giovani e sventurate, esposte da sempre ai propri limiti caratteriali e ai calcoli geopolitici delle Grandi potenze, hanno conosciuto entusiasmi e disillusioni, dittature e ideologie, miserie ed eroismi. Ma i riflessi sulla letteratura sono stati alquanto diversi: schematizzando al massimo, mentre in Italia, dopo le velleità profetiche delle «tre Corone» (Dante, Petrarca, Boccaccio), il prevalere della tradizione ermetica e più tardi le sperimentazioni avanguardistiche hanno di fatto ridotto la poesia alla lirica, confinata per di più in uno spazio avulso dall’attualità o comunque inaccessibile ai più (prova ne sia l’assenza quasi totale di una poesia «militante», con la sola, controversa eccezione di Pier Paolo Pasolini, e di qualche testo di Quasimodo, Gatto, Scotellaro), in Grecia è spesso accaduto l’opposto.

Tra i fattori che hanno contribuito a un simile sviluppo, garantendo alla poesia lo spazio che dicevamo, vanno annoverati senz’altro – a monte – l’assenza del peso della tradizione letteraria rinascimentale, la speciale ricchezza (linguistica e tematica) procurata dal rapporto con il mondo greco classico, il diverso ruolo della religione e della Chiesa nella formazione delle coscienze e del discorso pubblico; a valle, la pressante realtà di conflitti armati e fratricidi estesi per buona parte del XX secolo, secondo un modulo che trova confronti forse solo in Spagna e Portogallo, ma che ricorda da vicino ciò che sarebbe potuto essere la nostra stessa storia all’indomani della Seconda guerra.

Questi fattori, insieme a molti altri che non possono essere discussi qui (uno, importantissimo, è il ruolo della canzone popolare, quella di geni come Theodorakis o Chatzidakis, che soprattutto dagli Anni 60 in poi hanno musicato numerosi e diversi testi d’autore), hanno per certi versi «liberato» un potenziale espressivo che in Italia è rimasto latente, o è stato convogliato sulla prosa, da Vittorini a Fenoglio, da Bassani a Primo Levi a Elsa Morante (ma forse, ancor prima, sul cinema neorealista). Va da sé che non sempre quest’onda ha prodotto esiti altissimi né ha procurato a tutti l’immunità da accenti retorici o addirittura ingenui: tuttavia è stata importante per delineare un clima di riferimento, la convenzione che, qualunque cosa si scriva, «bisogna piantare le parole come chiodi / che non le prenda il vento» (M. Anaghnostakis).

Filippomaria Pontani