All’inizio, disse a Maks, avrebbe pensato con nostalgia a tornare su. La sua mente sarebbe sempre stata volta in quella direzione. Poi, pian piano, avrebbe scoperto che anche lì l’esistenza riservava qualche piacere. Più tardi, avrebbe finito col convincersi che le gioie o i dolori più elementari possono segnare tanto quanto i più sofisticati.

L’aquila, di Ismail Kadare, Longanesi editore 2007, traduzione dal francese  di Francesco Bruno

Il breve romanzo in questione è un’allegoria kafkiana di ciò che significava in Albania, durante gli anni della dittatura comunista di Enver Hoxha (durata dal 1944 al 1985, anno della sua morte) “cadere in disgrazia”, ovvero commettere un qualunque atto o comportamento tale da essere ritenuti pericolosi per la società. Ed è della caduta di Maks – il giovane protagonista del romanzo – che Kadare racconta; e lo fa non attraverso una narrazione realistica, bensì confezionando un romanzo onirico, inquietante, dove il confine tra realtà e immaginazione, tra ciò che realmente esiste e ciò che è frutto di visioni, è molto labile.

In una normale serata, Maks esce di casa per comprare le sigarette e, camminando sul marciapiede, appoggia i piedi su una tavola cedevole, messa lì per i lavori in corso; d’improvviso cade, risucchiato in un buco che diventa sempre più profondo, una voragine che lo stordisce e, nella caduta che sembra non finire mai, perde più volte i sensi, perde la coscienza di sé e della realtà, fino a ritrovarsi in un luogo altro, in un modo a rovescio, speculare seppur più desolato e inquietante di quello da cui proviene.

Maks si ritrova davanti ad un bar, dall’ironico nome “Bar della libertà”, ed è dalle parole del barista, ormai abituato ad accogliere i “caduti”, che capisce di essere finito in un luogo di esilio, un confino, da cui sembra impossibile potere risalire verso l’altro mondo. Un viaggio di sola andata. Maks fatica a comprendere e soprattutto ad accettare la sua caduta; ne scandaglia i possibili fattori che l’hanno determinata, riuscendo solo ad isolare un episodio avvenuto nel suo ambito di lavoro, una cosa di poco conto: non essere intervenuto a commentare il discorso del suo capo. Un peccato lieve, a prima vista, ma nella Tirana di quegli anni parlare troppo o non parlare, criticare o non esaltare i postulati ideologici, erano comunque comportamenti sospetti, e per cadere in disgrazia erano più che sufficienti.

Ma, si arrovella Maks, è possibile tornare indietro? Risalire verso l’alto? Lo domanda al barista, all’ingegnere, all’ex compagno di facoltà, alla bella Anna con cui – per dimenticare la Anna che ama là, nel suo mondo – intesse una relazione. E le risposte che riceve sono inquietanti: sì, forse, no, ma perché tornare in un mondo in cui non si è accettati, fuggire da cosa o da chi.

Le domande che mi poni sono inutili, fratello. Non hai bisogno di trovare nessuno… Cerca piuttosto in te stesso. Nel tuo cervello, capisci? È lì che troverai.

Maks è tormentato, percorre quel luogo e i suoi simboli – la fortezza, lo zoo – in cerca di risposte; sembra che qualcuno abbia provato ad evadere ma non si sa se ce l’abbia fatta. Lui non si arrende, non accetta di doversi adattare e dunque cerca la sua via di fuga, facendo appello ad un ricordo: un racconto mitico che gli frulla nel cervello e che, guarda caso, ha a che fare con un’aquila. E che pone un’ulteriore quesito sul suo desiderio di tornare al mondo di sopra.

Tra le leggende che popolano la memoria dei popoli balcanici c’è quella  che racconta il destino dell’uomo che, desideroso di potere, deve cavalcare un’ aquila per poi nutrirla in volo facendosi mangiare il corpo, al punto che, conquistato il cielo, l’ uccello porta sul dorso uno scheletro. Come dire che il potere divora i suoi beneficiati, che chi vuole raggiungere la gloria deve rinunciare a se stesso. (Dal sito albanianews.it)

Proprio l’animale che simboleggia il suo paese, l’aquila che campeggia su stemmi e bandiere. Sarà questo il mezzo per riuscire nella fuga?

Come dicevo all’inizio, è un racconto simbolico, carico di significati politici, sociali e storici; la trasposizione immaginifica di ciò che era la dura realtà di un popolo privato delle proprie libertà, sottomesso da un terrore latente che strisciava tra i muri delle case, si rifletteva negli sguardi dei vicini, dei colleghi, in un clima di diffidenza verso chiunque, una tendere alla libertà come ad una chimera. Un romanzo snello, sostenuto dalla scrittura tersa e suadente propria dell’autore, capace di rendere insicuro anche il lettore, che presto si immedesima col personaggio, che con lui si domanda quale sia la strada che porta alla libertà. E se esiste.

Una cosa mi ha molto incuriosita quando ho aperto questo libro: ho scoperto che la traduzione in italiano è stata fatta dalla edizione francese del 1996 (e questo probabilmente spiega anche perché il cognome dell’autore, da Kadare, sia diventato Kadaré). Mi ha sorpreso, perché l’albanese immagino abbia molti traduttori in Italia. Allora ho indagato e ho trovato un articolo illuminante su “Nazione indiana”, a firma di Francesca Spinelli.

In Italia solo una piccola parte delle opere di Ismail Kadare è stata tradotta direttamente dall’albanese. Molte sono comprese nel catalogo Longanesi, che ha comprato i diritti da Fayard, unico editore di Kadare in Francia. Le opere di Kadare, spiega Fayard sul suo sito, sono state tradotte “in una quarantina di paesi”. Sarebbe più corretto dire che in molti di quei paesi i lettori, spesso a loro insaputa, hanno a disposizione solo le traduzioni della versione francese.

Perché? Cosa impedisce la traduzione diretta? Vi consiglio la lettura dell’articolo, perché fa davvero luce sulla vicenda della traduzione, in particolare, e sull’autore, Ismail Kadare, e la sua storia editoriale in generale.

Qui potete leggere l’incipit. Qui trovate la mia recensione al romanzo “La bambola“.