Quanti uomini sono segretamente arsi dal sogno dei campi; o campagna russa, campagna russa! Respiri la resina, il grano, l’aurora: tra le tue distese, campagna russa, c’è da soffocare e morire. (..) Quanti figli hai nutrito, campagna russa; i pensieri su di te hanno vissuto, come fiori, nelle menti dei tuoi figli inquieti: fuggono, Russia, i tuoi figli, e dimenticano la tua vastità nei paesi stranieri; quando tornano, poi, chi li riconosce più?

Il colombo d’argento, di Andrej Belyj, Fazi editore 2018, traduzione di Carmelo Cascone, pagg 378

Oggi vi parlo di un classico della letteratura russa, un romanzo che è stato scritto nel 1909 ma che si fa leggere ancora oggi con grande interesse. Naturalmente se si è affascinati da un certo tipo di letteratura. Per leggerlo, bisogna entrare in un’altra epoca e soprattutto in una realtà – geografica e culturale – piuttosto lontana da noi. E in questo sta tutto il suo fascino, che rimane attraente anche a distanza di un secolo.

L’autore ci trasporta in una Russia che non c’è più, che appartiene ad un passato lontano anche per i russi stessi: una Russia dominata dalla religione, pre-rivoluzionaria, espressa dall’immensa campagna abitata da persone umili e da una nobiltà in via di decadenza, un terreno fertile per seminare ideologie e sette religiose.

C’è molto simbolismo in questo romanzo, dove sacro e sacrilego convivono, dove mistero e semplicità vanno a braccetto.

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Marc Chagall, La pluie, 1911

Il protagonista del romanzo è Pëtr Dar’jal’skij, uno pseudo intellettuale nullatenente, appassionato di poesia e opportunamente fidanzato con Katja, la nipote della baronessa Todrabe-Graaben, una nobildonna che appartiene proprio a quella decadenza (economica e morale) che è espressione del tempo. La baronessa non era molto felice di questo legame, ma in tutta risposta i due ufficializzano il legame e Pëtr si trasferisce nella loro immensa tenuta, nei pressi della città di Lichov. Lo conosciamo in una afosa mattina di Pentecoste, mentre vaga per le campagne attorno al villaggio, pensoso e vago.

L’amore per Katja viene improvvisamente minacciato dalla presenza di Matrëna, la serva del falegname Mitrij Kudejarov, capo della “setta dei colombi”. Matrëna non è bella, anzi ha il volto butterato dal vaiolo, ma pratica una sessualità piuttosto libera e, diciamo, esuberante. È il contraltare della raffinata e statica Katja, dai modi nobili ed eleganti, ma incapace di affascinare il lato più istintivo di Pëtr. Inoltre, la donna spinge Pëtr verso le idee quasi eretiche della setta, invischiandolo sempre di più, in un gioco che rimane in bilico tra credenze, sensualità e deliri onirici.

Come dicevo c’è molto simbolismo e nelle due donne pare di scorgere la contrapposizione tra la Russia in via di decadenza e destinata ad estinguersi e la nuova Russia, quella percorsa dai fermenti rivoluzionari che, da lì a non molto, cambieranno definitivamente il volto della grande madre Russia.

Per Dar’jal’skij l’unione con questa donna è foriera di rovina, di perdizione, sarà la vittima sacrificale di un delirio religioso paranoico.

Belyj scrive un grande affresco della Russia pre-rivoluzionaria, percorsa da fremiti di stampo messianico, ancora legata ai vecchi valori ma già vicina alla rivolta degli umili, le cui condizioni di vita non possono più essere accettate. Siamo ancora in una fase pre ribellione, ma si leggono già tanti sintomi; l’autore dipinge un mondo nel tumulto crescente che sfocerà nella Rivoluzione.

A proposito della “setta dei colombi” Belyj scrive nella nota introduttiva:

Molti hanno identificato la setta dei colombi con quella dei Chlysty. Sono d’accordo che nella setta ci sono aspetti che la fanno sembrare simile a quella dei Chlysty, ma il movimento del “chlystysmo”, come fermento religioso, non può essere adeguatamente inquadrato entro le pratiche dei Chlysty; esso è in fase di sviluppo; in questo senso i colombi, come io li ho rappresentati, come setta, non esistono. Ma possono esistere con le loro insane deviazioni: in questo senso i miei colombi sono del tutto reali.

Bellissime e poetiche le descrizioni paesaggistiche, dove la natura viene colta in tutta la sua bellezza e potenza e l’uomo si muove in essa e ad essa soggiace. Sembra di vedere coi propri occhi il villaggio di Celebeevo, perché l’autore lo descrive in ogni suo particolare. Anche le descrizioni dei personaggi, così vivide ed ironiche, rendono perfettamente i caratteri, le debolezze, i vizi e anche la forza, concentrata in uno sguardo, in un gesto.

Andrej Belyj è uno dei più grandi scrittori russi di tutti i tempi. Nato a Mosca nel 1880, all’anagrafe Boris Bugaev, l’autore de Il colombo d’argento assunse lo pseudonimo Belyj (il colore bianco). Si interessò al simbolismo francese. Amico del poeta Aleksandr Blok, con esso Andrej Belyj condivise la passione per le concezioni mistico-filosofiche di Vladimir Solov’ëv. Tra il 1913 e il 1916, lo scrittore abbracciò l’antroposofia di Rudolf Steiner, tanto da partecipare alla costruzione dell’edificio di ‘culto’ degli steineriani, lo Johannes Bau, a Dornach, nei pressi di Basilea. Studiò Matematica presso l’Università di Mosca, dove a partire dal 1903 strinse amicizia con il filosofo e mistico Pavel Aleksandrovič Florenskij. In questi anni intrattenne relazioni e rapporti con società filosofico-religiose, impegnate in un dibattito che, recuperando alcune antiche tradizioni del misticismo, poneva in discussione i rigidi confini dell’ortodossia. Nel 1923 ritornò per sempre in patria. Morì a Mosca l’8 gennaio del 1934, per un colpo di sole subìto in Crimea. Belyj fu pure martinista, Superiore Incognito, membro della loggia San Giovanni l’Apostolo.

Qui potete leggere l’incipit.

Ho notato un errore nel risvolto della quarta: il dipinto in copertina è erroneamente attribuito a William Holman Hunt, pittore preraffaellita, che nel 1911 era già morto da un anno. Il quadro, di cui la copertina coglie un particolare, è di Chagall (vedi sopra).