Vorrei starmene zitta quando mi chiedono delle mie origini. Vorrei raccontare altro, qualsiasi altra cosa, inventare, mentire. Vorrei che mi facessero domande diverse, domande inattese, sconcertanti, anche assurde, sorprendenti. E allo stesso tempo mi crogiolo nel mio piccolo mondo esotico e ne traggo una fierezza appagante. L’orgoglio di essere diversa. Ma resta il disagio, la voce interiore che mi ricorda che io non sono questo, che mi nascondo dietro una maschera, che la mia è la finzione dell’esule romanzesca. Vi regalo la maschera, prendetela, ve la affido.

Io non sono un albero. Storia di un esilio persiano, di Maryam Madjidi, Bompiani editore 2018, traduzione di Simona Munari, pagg. 167. In copertina, un’opera dell’artista Hadieh Shafie, “Passion”.

Le forti e salde radici di un albero, ecco cosa sente mancare la protagonista, cioè l’autrice: quelle radici con cui ha lottato e fatto pace, quelle radici che dovrebbero ancorarla a due culture, a due Paesi, e che invece sembrano essersi dissolte in un terreno infido. Quelle radici che per essere percepite come reali hanno bisogno di tre nascite.

Questo romanzo/memoir è infatti cadenzato da tre momenti nella vita di una donna che, ancora bambina, ha lasciato con la sua famiglia il Paese d’origine, l’Iran, che ha dovuto integrarsi in Francia, e che, per accettarsi e liberarsi dai fantasmi e dalle maschere, ha dovuto tornare in Iran, per ritrovare quelle radici che, sole, possono farla rinascere ad una vita piena. Solo dopo questo percorso può finalmente sentirsi libera di essere se stessa, qualunque sia il luogo dove deciderà di vivere, dopo avere accettato di essere sia iraniana che francese.

Il racconto si apre quando Maryam è ancora nella pancia della madre e lì le arrivano come delle onde le tensioni e le sensazioni forti che agitano la vita della donna che la tiene in grembo. I suoi genitori hanno partecipato all’inizio della rivoluzione in Iran, dalla parte dei marxisti, quella che è stata repressa nel sangue, che ha sacrificato migliaia di giovani vittime in nome della rivoluzione islamica. Sua madre è una donna forte, votata alla lotta: incurante del fatto di essere incinta, partecipa ad incontri clandestini, diffonde comunicati e si trova faccia a faccia con le milizie che fanno strage e torturano. E con lei il marito, che senza rimorsi ha lasciato un posto sicuro in banca per tenere fede ai propri ideali. Genitori che non si fanno scrupolo di “usare” la figlioletta come mezzo per trasportare documenti scottanti, tanto lei non verrà perquisita. Finché tutto precipita e non resta che la fuga, l’esilio in Francia.

Una partenza dolorosa per tutti; per i genitori che sanno che le loro vite non saranno più come prima, per la nonna e gli altri parenti che restano e per la bambina che, con i suoi occhi pieni di domande a cui è difficile rispondere, deve abbandonare i suoi giocattoli, le braccia accoglienti della nonna, il giardino e la casa in cui è nata.

La parte centrale del romanzo è imperniata sulla difficile condizione degli esuli, dei rifugiati politici, sulle loro difficoltà ad integrarsi: difficile trovare lavori – adeguati o meno alle proprie capacità e conoscenze –, difficile imparare una nuova lingua, difficile sentirsi parte della nuova società di cui si è entrati a far parte e di cui non si conosce niente.

Già in Iran i sogni della madre stavano scomparendo. In Francia i pochi sogni rimasti svanivano uno per volta scivolando sotto la sedia, sulla moquette della camera. Frantumi del suo esilio forzato. I progetti, le ambizioni, piccoli frammenti di nulla verso cui si tende per costruire una vita. Tutto si sgretolava, e io ti vedevo sbiadire a poco a poco: eri sempre più sfocata, sfumavano i tratti del viso, la tua voce diventava flebile, i tuoi gesti avevano la lentezza delle figure che compaiono nei sogni, non del tutto reali e non del tutto chimere.

Il forte senso di estraniamento colpisce anche la piccola Maryam, che fatica a entrare in contatto con i coetanei e con le figure di riferimento a scuola, che impara la nuova lingua ma si rifiuta di utilizzarla, finché conosce una ragazzina figlia di esuli come lei e finalmente si sente di nuovo compresa.

Maryam cresce così tra continui tentativi di integrarsi e nostalgie; impara sì la nuova lingua, il francese, ma si rifiuta di studiare il persiano, perché sente che quell’idioma non è più quello con cui può esprimersi nella nuova patria. Finché diviene una donna, studentessa alla Sorbona, e da lì riparte ad accettare quella lingua, il persiano. Diventa incantatrice di uomini che seduce con quel suo esotismo espresso nell’aspetto fisico e nelle radici culturali del suo Paese d’origine: le basta citare qualche verso in persiano, in quella lingua morbida e suadente, per conquistare. Ma cosa le rimane di quelle conquiste? Cosa trova e cosa perde di sé nel suo interpretare il ruolo che le viene riconosciuto come unico possibile e in cui cerca di mascherare se stessa?

Ecco che la giovane donna ha bisogno di una terza nascita, ha bisogno di fare i conti col suo passato, guardandolo in faccia, tornando là da dove è partita, per sentirsi finalmente libera di essere se stessa, una persona multipla, un mix di due culture, o meglio il prodotto di esse, una terza via che le deve integrare e fondere. Tornando a Teheran trova una realtà diversa da quella che ha mitizzato; non è la “patria perduta”, è una società in cui vige una forte repressione, in cui si pretende una completa sottomissione ai dettami religiosi, in cui manca la libertà di espressione, in cui le donne difficilmente possono esprimere le proprie aspirazioni e capacità, in cui i diritti dell’uomo sono spesso violati. Eppure, al di sotto della patina ufficiale, è anche una società che non smette di credere nella libertà, e che sa che la lotta non deve finire, magari espressa attraverso forme diverse, senza perdere la speranza. E, su tutto, la poesia, come le dice il tassista di Teheran:

Le dirò, mia dolce signora, l’unica cosa che abbiamo saputo proteggere è la nostra poesia, ed è l’unica cosa che si salva, in Iran.

Il romanzo di Madjidi mette sul piatto tante questioni: l’identità, ad esempio, che come dice lei stessa in un’intervista, passa attraverso la lingua, che è:

la chiave di accesso alla propria identità. Perché né un pezzo di terra né una bandiera possono racchiudere fino in fondo ciò che siamo, ma la lingua sì, ha questo potere. Nel mio caso si è trattato prima di «conquistare» il francese quando da bambina sono arrivata a Parigi, quindi di «riapprendere» il persiano da adulta, la lingua materna che avevo pressoché perduto. Ed è attraverso questa doppia identità che sono andata definendomi, come donna e come scrittrice. Perciò, ci tengo molto a sottolinearlo: la lingua è la mia vera patria. (Il manifesto, 31.8.2018)

Un altro concetto su cui l’autrice si esprime, è quello di integrazione, o meglio di assimilazione, percorso su cui procede disorientata fin dal suo arrivo, ma che arriverà a comprendere solo da adulta:

compresi di aver subito una massiccia azione di ripulitura. Come se fosse necessario nascondere la nostra differenza e poi procedere alla cancellazione totale. Cinque minuti dedicati alla presentazione dello straniero: la sola e unica volta in cui le sue “origini” esistono, poi più nulla. (..) Si cancella, si pulisce, veniamo immersi nelle acque della francofonia per lavare la nostra memoria e la nostr identità, e quando tutto è ordinato, svuotato per bene dall’interno, si concede la ricompensa: eccoti tra i francesi, ora cerca di essere all’altezza dell’onore che ti è stato accordato. (..) Dimentica da dove vieni, qui non ha più alcuna importanza.

Quello che l’autrice vuole esprimere è che per lei non ha senso dovere scegliere di essere francese o iraniana, perché lei sente di essere sia l’uno che l’altro, sa che la sua identità si è andata costruendo attraverso due lingue, due culture, due mondi e che l’unico modo per non annientarsi è accettare di avere questa doppia identità, e di essere il prodotto di questo processo attraverso cui è cresciuta, e che ha fatto proprio attraverso la scrittura.

Il libro di Maryam Madjidi si muove su un terreno di grande attualità, sui cui è importante fare delle riflessioni approfondite e prestando orecchio a chi le ha vissute in prima persona.

La scrittura con la quale ci consegna la sua storia è molto particolare: nel racconto è un continuo alternarsi di punti di vista – dalla prima persona, alla terza – di passato e presente, di registro personale in cui le emozioni dirompono con la forza della sincerità, ad uno più distaccato, in cui si osservano i protagonisti muoversi sulla scena come se si stesse vedendo un fotogramma di film.

Una piccola nota sul titolo: in italiano è stato scelto “Io non sono un albero” che è una frase contenuta del romanzo, evocativa e carica di significato. Il titolo originale in francese – e che è stato mantenuto per esempio anche nell’edizione spagnola – è invece “Marx et la Poupée“, cioè “Marx e la bambola“, che si riferisce all’infanzia della protagonista.

Qui potete leggere l’incipit.

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Maryam Madjidi nasce in Iran nel 1980 ma lascia il Paese per la Francia nel 1986. Studia Lettere alla Sorbona e inizia a insegnare nei licei. Torna per la prima volta in Iran nel 2003, e viaggia a lungo tra la Cina e la Turchia. Al suo ritorno in Francia si occupa dell’insegnamento del francese ai detenuti e ai minori non accompagnati che giungono dall’estero. Con “Io non sono un albero“, suo romanzo d’esordio, ha vinto il premio Goncourt Opera Prima e il premio Ouest-France Etonnants Voyageurs.