Si stava avvicinando una tempesta. Una leggera brezza mi portò l’odore dolce della pioggia. Potevano essere due gocce o un acquazzone, anche se nel deserto di solito la pioggia scende forte e tutta insieme sulla terra riarsa, che non riesce ad assorbirne così tanta, così in fretta. I letti disseccati si riempiono di un miscuglio di acqua e fango che precipita vorticando a ogni minima pendenza e guadagna velocità e volume fino a trasformarsi in torrenti impetuosi che travolgono tutto ciò che incontrano nella loro corsa verso l’ignoto. È così che la gente si caccia nei guai. pag. 61

Il diner nel deserto, di James Anderson, NN Editore 2018, traduzione di Chiara Baffa. Primo volume de “La serie del deserto

Proseguono le mie letture ambientate negli Stati Uniti, e, come per il romanzo appena letto di Jesmyn Ward, anche qui ci troviamo in un luogo periferico, duro e affascinante; un luogo unico, che, per le sue caratteristiche, è in grado di imprimere dei ritmi di vita specifici alle persone che lo scelgono come loro dimora, o che ci capitano. Nel caso che viverci sia frutto di una scelta, nella maggior parte dei casi si tratta di una fuga: dalla legge, da persone con cui non vuoi più avere a che fare, dai propri fantasmi, da se stessi. Quando, invece, ci si arriva per qualsiasi altro motivo, ci si deve arrendere al suo carattere, accettarlo e imparare a conviverci. E ad apprezzarne il fascino, rispettandolo. In caso contrario, può rivelarsi un luogo fatale.

Deserto utah

In qualche oscuro momento del passato di questo deserto c’è stata una ragione per questa follia. Ma è una ragione che nessuno conosce o ricorda più. Come accade per molte cose nel mondo che, se vanno avanti per un po’ di tempo, sfidano ogni spiegazione, alla fine ti arrendi e le accetti. Quaggiù riconosciamo i misteri di questo tipo sotto il nome di tradizioni. pag. 101

L’ambientazione del romanzo nel deserto dello Utah rievoca alla memoria una serie infinita di immagini cinematografiche, popolate da strade dritte che si perdono all’orizzonte, fiancheggiate da ali di terra rossa e riarsa, priva di vegetazione, e in lontananza, canyon oltre i quali il sole si abbassa infiammando il cielo. E dal sonoro del film, prendiamo a prestito anche i rumori: il sibilo del vento che, non trovando ostacoli sul suo cammino, spazza il terreno, lo scroscio dell’acqua quando nuvoloni neri cozzano in alto, dando vita a scariche elettriche che illuminano i cieli notturni, l’ululato del coyote.

Deserto rotolacampo

Ed è su una di queste strade che si muove il protagonista della storia, il camionista Ben Jones:

Quanto a me, tra inferno e paradiso, Dio poteva anche rimettermi sulla 117. Non mi sarei opposto, anche se gli avrei educatamente chiesto di coprire il costo della benzina e di assicurarsi che i clienti mi pagassero, puntualmente se possibile. Non era il paradiso e non era l’inferno, solo un rettilineo che gli passava in mezzo. Forse aveva qualcosa di entrambi. Era solo la 117. pag 199

Ben Jones – mezzo indiano, mezzo ebreo, abbandonato dalla madre appena nato – è un camionista che lavora in proprio sul suo tir, fa consegne nelle fattorie più sperdute, lungo la 117, e tutti lo conoscono, si fidano di lui che sa stare al suo posto, poche parole ma è una presenza che a volte si rivela essenziale. È sull’orlo del tracollo finanziario, non ha una casa sua, né una donna da cui tornare, ma vive alla giornata; la vita ai margini del deserto gli ha conferito la capacità di sapere leggere ogni minimo particolare, e, soprattutto, gli ha insegnato a conoscere al volo le persone. Tra i suoi amici ci sono lo scorbutico Walt, il proprietario del diner – sempre chiuso – sulla 117; collezionista di moto, non ama i contatti con le persone, specialmente estranei, e vive in fuga dai suoi fantasmi, da un dolore che gli ha cambiato la vita. Ma il rapporto con Ben andrà assumendo dei connotati sempre più intimi nel corso della storia. E poi ci sono i fratelli Lacey, rintanati nel loro vagone ferroviario, che hanno in Ben il loro unico contatto con l’esterno; e il predicatore John, che percorre la 117 a piedi, portandosi sulle spalle una pesante croce di legno, e condividendo con Ben delle brevi soste in cui si rollano e fumano un’immaginaria sigaretta.

Una volta, durante una delle nostre sigarette sul ciglio della strada, il reverendo aveva detto che gran parte della gente associa il deserto a ciò che gli manca: l’acqua e le persone. «Non pensano mai a una cosa che nel deserto abbonda – la luce» disse. «Tutta questa luce». pag 305

Di lui, di chi sia veramente e cosa abbia alle spalle, così come per i fratelli Lacey, non si sa nulla, ma a Ben ciò importa poco. Una delle leggi che accomuna gli abitanti del deserto è proprio di non fare domande. Anzi, di parlare lo stretto necessario.

Deserto Moab

Ma la piattezza delle loro vite viene interrotta dall’apparizione di una donna, Claire, che Ben, fermandosi per caso nelle vicinanze del diner e scoprendo l’esistenza di una casa di cui nulla sapeva, si trova davanti come un’apparizione; affascinante, intenta a suonare un immaginario violoncello, e immersa nella calda luce del tramonto, conquista immediatamente Ben. La donna e il violoncello sono gli ingredienti che danno l’avvio a questo romanzo che potrebbe essere definito un crime, anche se non in senso stretto; un po’ sul genere hard boiled – a cui l’autore strizza l’occhio -, dove il protagonista – detective non ufficiale – elabora le sue congetture e partecipa all’indagine, portata avanti dal capo della polizia e da un investigatore assicurativo. Perché, direte voi? Perché il violoncello non è solo immaginario, tutt’altro: è infatti sparito un esemplare unico, dal valore milionario e la donna è coinvolta nella sparizione. In fuga da un marito a cui importa più dello strumento che di lei, si nasconde proprio nel deserto, sulla 117, e per capire perché dovrete leggere il romanzo. Non sarò certo io a svelarlo!

La trama ruota attorno a questo caso in modo avvincente; la tensione narrativa molto forte e la prosa scorrevole, venata di ironia, soprattutto nei dialoghi, sono gli elementi che non vi permetteranno di interrompere la lettura se non per attendere alle funzioni fisiologiche essenziali.

Si avverte il pericolo, costituito sia dal deserto stesso e dalle sue insidie, che dalle persone, dalle loro intenzioni, dagli interessi non del tutto innocenti che muovono i loro piedi e i loro pensieri. Gli eventi del passato riemergono svelando violenze e riportando alla luce episodi che hanno inciso per sempre sulle vite di alcuni protagonisti.

Nella vita di Ben c’è anche una ragazzina diciassettenne, figlia di una sua ex amante, che da lui cerca protezione; anche lei avrà un ruolo nella ricerca della verità.

Questo romanzo è una lettura che vi consiglio in qualsiasi momento, e più che mai in tempo di vacanza, quando ci si può permettere di non abbandonare un libro, perché vi assicuro che si legge tutto d’un fiato.

Di esso ho molto apprezzato non solo l’intrigo che sta alla base, ma anche – o forse, soprattutto – la resa dell’ambientazione, il deserto dello Utah che si fa esso stesso protagonista, con i suoi colori, i sentieri che si perdono nella immensa distesa e la luce del tramonto, che come avverte Ben, si apprezza soprattutto volgendo lo sguardo ad est, nella direzione opposta, dove la luce esalta i colori e crea un’atmosfera magica.

Inutile dire che la mia prossima lettura sarà “Lullaby road”, il secondo volume di questa serie…

Qui potete leggere l’incipit.

James Anderson è uno scrittore e poeta americano nato a Seattle, ed è stato l’editore della rinomata casa editrice Breitenbush Books. Con NNE pubblicato Il diner nel deserto e Lullaby Road, i primi due capitoli della Serie del Deserto.