Gli ho detto che era successa una cosa e che ero dovuta rimanere lì a badare alla casa e alle piccine. Non gli ho raccontato che avevano sparato a vero lattaio, né che ma’ s’era trasformata nella sua vera sé dopo che avevano sparato a vero lattaio, né che io ero stata avvelenata, né che ragazza delle pastiglie era stata uccisa, né che Lattaio aveva intensificato le sue manovre predatorie su di me – in effetti, su Lattaio non gli avevo detto alcunché. Non gli ho raccontato della comunità  e delle sue fabbricazioni mentali, né dei particolari di quell’autobomba che rimaneva pur sempre una questione scottante e aperta tra noi nonostante lui perseverasse nel minimizzare. (pag. 366)

Milkman, di Anna Burns, Keller editore 2019, traduzione di Elvira Grassi, pagg. 451; vincitore del Man Booker Prize, del National Book Critics Award, del Orwell Prize for Political Fiction

belfast-strade-2
Photo credits Fabio Polese

Ho appena finito di leggere questo fiume in piena, questo romanzo atipico nel linguaggio e nella costruzione narrativa e voglio subito raccontarvi le mie impressioni.

Milkman” è torrenziale e la mia sensazione preponderante è che leggerlo è come stare seduti in poltrona e ascoltare un’amica che racconta la sua storia. Anna Burns infatti ti chiede di metterti comodo, magari con una tazza di tè in mano, e di concederle il tempo di dare voce alla sua protagonista perché ti spieghi come era vivere a Belfast negli anni Settanta.

Mi hanno colpito molti aspetti di questo libro; in primis, la scrittura, originale e avvincente; all’inizio spiazzante, proprio per la sua unicità, ma via via che ci si addentra nella narrazione, crea dipendenza, spinge a correre tra le pagine, come se si stesse remando su una barca che cavalca un torrente gonfio e minaccioso. Lo stile inventato da Burns amplifica l’atmosfera cupa, il senso di inquietudine e impotenza di chi vorrebbe allontanarsi da ciò che sta attorno, pur avendo la chiara consapevolezza di quanto ciò sia impossibile e nessuno possa estraniarsene.

Belfast anni settanta
photo source web

Scritto in prima persona, la voce è quella di una diciottenne – sorella di mezzo – che parla a ruota libera, riversando i suoi pensieri sulla carta; come un fiume che si è ingrossato, l’acqua – cioè le parole – passa e travolge tutto. Una scrittura senza dialoghi – se non quelli riportati in modo indiretto dalla voce narrante – che cattura perché è un continuum di passaggi legati uno all’altro, un racconto che sfocia in un altro, che a sua volta deve rifarsi ad un’altra vicenda, che per fare intendere di cosa parla deve riferirsi al contesto, e così via. Ci sono molte riflessioni della protagonista attraverso le quali ci racconta quella società: la lista dei nomi da dare ai figli ammessi e quelli ritenuti sovversivi; la lista delle cose che le ragazze/donne possono convenientemente fare e quelle ritenute inopportune, come leggere romanzi dell’Ottocento. Le inquietudini di una adolescente che è costretta a crescere in questo clima di violenza fisica, verbale e sessuale. Non è facile stare dietro a questo modo di scrivere una storia; ogni tanto bisogna fare una pausa, tirare il fiato e questo per due motivi: per il ritmo, che è davvero incalzante, e per la tensione che il narrato crea.

Il romanzo ruota attorno ad un concetto cardine; la violenza. Violenza che ha una radice politica, dato che parliamo degli “anni di piombo”, i “Troubles”,  dell’Irlanda del Nord, ma che si appropria anche degli spazi privati, generando un’ attitudine alla prevaricazione, al sospetto, alla violenza sulle persone e alla violenza di genere. Sono gli anni delle lotte tra gli unionisti, protestanti e favorevoli alla permanenza del Paese nel Regno Unito, e i repubblicani, cattolici e favorevoli all’unificazione delle due Irlande. Questa divisione permeava le comunità creando conflittualità fino al grado più elementare di aggregazione sociale, e cioè dal quartiere, fino ai lati di una stessa via.

Il romanzo parla di comunità in netto antagonismo, caratterizzate da una polarizzazione che dalle idee politiche si estende ad ogni aspetto della vita, pubblica e privata; che coniuga un solo verbo, dividere. Attraverso l’uso sistematico del sospetto, della maldicenza, della delazione. Violenza che si ripercuote nei rapporti tra uomini e donne, dove l’uomo deve continuamente imporre la sua supposta supremazia, allenandola e aspettandosi di trovare terreno fertile a questa sua propensione, in una realtà dove le donne devono stare al loro posto, accettare la condizione inferiore e non ribellarsi. Violenza che si esprime attraverso lo stalking, in modo inquietante e claustrofobico.

Il clima generale che si respira in questo sobborgo cattolico mi ha istintivamente richiamato alla mente quello descritto da Aramburu in “Patria, nella cittadina basca in cui si svolge la storia. Un clima totalmente condizionato dalla violenza che ha una matrice politica ma che diventa sostanza costituente del tessuto sociale e familiare, alienando i rapporti di amicizia e, spesso, di parentela. Un contesto specifico e localizzato quello che propone Burns, ma che diventa universale in quanto le logiche che descrive sono le stesse in ogni parte del mondo.

Burns non attribuisce nome ai suoi personaggi; li chiama Qualcuno McQualcuno, quasi-fidanzato, sorella maggiore, cognato numero uno, lattaio, vero lattaio, e così via. I personaggi sono chiamati attraverso il loro apporto funzionale alla storia, o al grado di parentela con la protagonista, anziché essere riconoscibili singolarmente per la loro personale unicità. E questa scelta è perfettamente coerente con la scelta stilistica complessiva del romanzo che allarga la sua narrazione traslando una storia privata verso le “n” storie raccontabili da quello specifico contesto geografico, sociale e politico. Vale a dire che, pur parlando di quel peculiare contesto e momento storico e pur alludendo con precisione alle fazioni e alle ideologie in campo, Anna Burns, non nominandoli direttamente, li rende universali e ce li mostra in una prospettiva fuori dallo spazio-tempo, quasi in una dimensione distopica.

Anna Burns conquista col suo romanzo il prestigioso Man Booker Prize, mai vinto finora da una autrice/un autore nord-irlandese. Lo fa con un’opera che è stata definita geniale, originale, una “lettura macina-cervello”, e con una storia unica e universale allo stesso tempo. Per quanto mi riguarda, posso dire che all’inizio, nei primi paragrafi, è stata spiazzante, ma una volta capito il costrutto narrativo, mi ha trascinata con la sua forza poderosa.

Anna Burns

Anna Burns è nata a Belfast e cresciuta nel distretto cattolico di Ardoyne. Ha frequentato il liceo di St. Gemma. Nel 1987 si è trasferita a Londra, per poi vivere nell’East Sussex, sulla costa sud inglese.
Autrice di altri due romanzi – No Bones del 2001 (vincitore del Winifred Holtby Memorial Prize nel 2001 e finalista dell’Orange Prize for Fiction) e Little Constructions del 2007 – e della novella Mostly Hero, del 2014.

Per un approfondimento suggerisco:

https://ilmanifesto.it/burns-la-forsitudine-della-vita-nella-belfast-anni-settanta/

http://www.minimaetmoralia.it/wp/nel-cuore-del-conflitto-irlanda-del-nord-milkman-anna-burns/

Potete leggere l’incipit qui.