Non so come verrà percepito adesso, ma, in quelle epoche remote, a noi bambini sembrava che il tempo fosse fatto di una specie particolare di ore, tutte lente, strascicate, interminabili. Dovettero passare alcuni anni perché cominciassimo a comprendere, ormai senza rimedio, che ognuna di esse aveva solo sessanta minuti, e, più tardi ancora, avremmo avuto la certezza che tutti questi, senza eccezione, terminavano alla fine di sessanta secondi … (pag. 48)

 

Le piccole memorie, di José Saramago, Einaudi 2007, traduzione di Rita Desti, Pagg. 120

Un libro da leggere e che si legge velocemente: centoventi pagine in cui un Saramago ottantaquattrenne racconta episodi della sua infanzia ed adolescenza. Li racconta un po’ a briglia sciolta, con ironia e sagacia, con salti temporali, così come gli vengono alla mente per associazioni. Luoghi del passato e volti del passato; ricordi che magari non rievocava da molto tempo e che improvvisamente, in virtù di uno sguardo attento – direi sentimentale – saltano fuori. Sentimentale, cioè quello sguardo tipico di chi, un po’ avanti negli anni, capisce quanto preziosi siano anche quegli episodi che una volta sembravano essere di poco conto.

Scritto nel suo tipico stile – con periodi lunghi e anche complessi dal punto di vista sintattico – il racconto ci mostra i giochi fanciulleschi architettati alla confluenza tra i due fiumi – l’Almonda e il Tago – che sfiorano il borgo di Azinhaga in cui lo scrittore è nato e ha vissuto i primi anni di vita, prima del trasferimento a Lisbona; la paura dei cani e l’attrazione per i cavalli – spiegati in episodi divertenti -; i successi e gli insuccessi scolastici e i compagni di scuola; le prime scoperte inerenti la sessualità, le difficoltà economiche della famiglia, le prime letture, la morte del fratello  – a soli due anni -, le estati assolate trascorse nella fattoria dei nonni e i compagni di giochi con cui si misurava. Tutto uno scorrere impetuoso di ricordi che però lo scrittore cerca di mantenere lucido, di distinguere ciò che è reale da ciò che la memoria traveste di reale, di separare i propri ricordi da quelli raccontati da altri.

Ricordi che partono dagli anni Trenta e procedono lungo un decennio cruciale nella storia della Penisola Iberica (e non solo); dittature e guerre che si insinuano nella vita degli adolescenti costretti ad indossare divise e fare marce; la censura e il clima di sospetto; le prime letture e la formazione del gusto letterario.

Queste due immagini – quella di un Dollfuss sorridente al passaggio delle truppe, chissà se già condannato a morte da Hitler, quella della mano di Salazar celata sotto la morbidezza di un velluto ipocrita – non mi hanno mai lasciato nel corso della vita. Non domandatemi perché. Molte volte dimentichiamo ciò che vorremmo poter rammentare, altre volte, ricorrenti, ossessive, reagendo al minimo stimolo, ci vengono dal passato immagini, parole isolate, folgorazioni, illuminazioni e non c’è spiegazione, noi non le convochiamo, ma loro stanno lì. E sono queste che mi informano che già a quel tempo, per me, più per intuizione, ovviamente, che per sufficiente conoscenza dei fatti, Hitler, Mussolini e Salazar erano della stessa pasta, cugini della stessa famiglia, uguali nella mano di ferro, diversi solo nello spessore del velluto e nel modo di stringere. (pag. 113)

Molti gli episodi “gustosi”, come quello dell’attribuzione del suo cognome ad un impiegato dell’anagrafe ubriaco, o la scoperta del corpo femminile in circostanze proibite; piacevole anche farsi condurre per mano per le vie di Lisbona. Insomma, una lettura stuzzicante che contribuisce a conoscere l’uomo e lo scrittore Saramago.

Qui potete leggere l’incipit.

Lisbona casa-dos-bicos
Casa dos Bicos, Alfama, Lisboa