Milton si premette le mani sul viso e in quel buio cercò di rivedere gli occhi di Fulvia. Alla fine abbassò le mani e sospirò, esausto dallo sforzo e dalla paura di non ricordarli. Erano di un caldo nocciola, pagliettati d’oro. (..) Arrivò sotto il portichetto. «Fulvia, Fulvia, amore mio». Davanti alla porta di lei gli sembrava di non dirlo al vento, per la prima volta in tanti mesi. «Sono sempre lo stesso, Fulvia. Ho fatto tanto, ho camminato tanto… Sono scappato e ho inseguito. Mi sono sentito vivo come mai e mi son visto morto. Ho riso e ho pianto. Ho ucciso un uomo, a caldo. Ne ho visti uccidere, a freddo, moltissimi. Ma io sono sempre lo stesso». (pag. 8)

Una questione privata, di Beppe Fenoglio, Einaudi (varie edizioni); la prima edizione uscì poco dopo la sua morte, nel 1963, per l’editore Garzanti, nel volume Un giorno di fuoco (formato da sei racconti scelti dall’autore, più altri sei, ricavati dalle sue carte, e da Una questione privata).

Mi sono concessa una rilettura eccellente, un ritorno ad un autore che amo (quasi come Pavese, e anche Primo Levi) e ad un racconto (o romanzo breve?) che mi aveva colpito molto allora, e che ha riconfermato tutta la sua potenza in questa rilettura a distanza di qualche decennio. Un racconto che ci permette di vedere alcuni avvenimenti relativi alla guerra di Resistenza non con gli occhi degli storici, ma con quelli della gente comune, di coloro che l’hanno vissuta in presa diretta, che ne sono stati protagonisti, carnefici e vittime allo stesso tempo. Avvenimenti pubblici che si intrecciano con “una questione privata”, per dare forma ad un romanzo d’amore e sull’amore. Un amore che si è sedimentato nel cuore di un ragazzo, senza realizzazione, ma nutrito da una speranza dura a morire. Una speranza che di colpo viene cancellata da un tarlo, travolta da una cieca gelosia che mette in moto una febbrile ricerca. Un sentimento febbrile nutrito d’amore: l’unico antidoto che può proteggere  e tenere in vita contro l’orrore della guerra, ma anche contro le evidenze che la realtà pone.

Il racconto ruota attorno a Milton (nome di battaglia non casuale), uno studente universitario che si è unito alla Resistenza, in una cellula che opera nelle vicinanze di Alba, nelle Langhe. Durante una perlustrazione, Milton rivede la villa sulla collina dove era sfollata, un paio d’anni prima, Fulvia, una ricca e bella ragazza di Torino. Milton – non particolarmente avvenente, tranne per gli occhi – si era innamorato della ragazza che lo ricambiava di un’amicizia piena di ammirazione per la sua cultura e sensibilità, per le lettere che lui le scriveva, per i gusti musicali comuni. Ma non dell’amore che Milton desiderava.
Ormai trascorso il tempo, e non avendo più avuto occasione di incontrarla, a Milton non resta che aggrapparsi ai ricordi, fattisi ancora più malinconici alla vista delle condizioni malandate della villa teatro dei loro incontri. La custode, in un breve colloquio, rivela al giovane gli incontri avvenuti tra Fulvia e Giorgio Clerici, un comune amico; la donna allude ad una probabile relazione tra i due. Quanto basta per insinuare in Milton un tarlo angoscioso e accendere una cieca gelosia che si fondono in un’unica passione ossessiva: il desiderio di conoscere la verità. Per fare questo deve incontrare Giorgio e appurare il vero. Parte così per il paese in cui la cellula di Giorgio si nasconde ma, arrivato là, scopre che Giorgio è stato appena catturato dai fascisti, e probabilmente verrà processato e fucilato. Allora l’unica speranza è catturare un prigioniero da scambiare con l’amico, tentativo in extremis di andare incontro ad una verità che diventa ragione di vita, e di morte.

Il racconto si sviluppa tenendo traccia di tutti gli spostamenti di Milton, gli incontri con altri partigiani, con i contadini che li sfamano e gli danno un riparo, nascosti in una campagna ottobrina fradicia di pioggia e di nebbia, con il nemico a portata di mano. Forte la tensione che trasuda dai gesti, dalle poche parole in codice condiviso, nei racconti sotto il tetto di un fienile; drammi, morti che colpiscono il lettore proprio perché, invece, per i protagonisti sono ormai diventati routine, ci si è assuefatti, con la consapevolezza che è attraverso questo che si deve passare per arrivare alla fine.

Il racconto termina con una fine sospesa, che viene al termine di un capitolo dai risvolti drammatici, durissimi, a tratti feroci. Un capitolo in cui accadono cose che Milton non verrà a sapere – almeno nello spazio del racconto-; e allora qual è il significato di questo capitolo? Forse Fenoglio vuole dirci che non esiste questione privata, che ogni nostra azione ha delle conseguenze che si ripercuotono, a catena, sugli altri? Vuole forse dirci che le nostre azioni, le nostre scelte, per quanto importanti per noi, hanno un prezzo, che richiede un forte senso di responsabilità? Una fine incompiuta a causa della morte di Fenoglio, o una fine progettata in questo modo? Quale che sia la risposta, non sembra necessitare di niente di più, questo racconto. Quello che aveva da dire, lo dice nella sua breve ma intensa tessitura.

Lo stile scarno, essenziale, ritmato dai dialoghi e dal passo lungo e veloce con cui Milton si muove tra boschi e crinali, mette ancora più a fuoco l’essenza del racconto: legare in modo stretto la questione privata e quella pubblica, illuminando l’una con l’altra e sostanziandole di un intento unico. L’amore che non deve morire, che deve rimanere intatto come lo pensava, che deve rimanere vivo per tenere in vita un ragazzo, e un altro, e altri ancora, contro gli orrori della guerra, contro la disumanizzazione della guerra. Un racconto che coniuga i verbi che ruotano attorno ai sentimenti e ai legami umani: l’amore, l’amicizia, il tradimento. Ragazzi, uomini che inseguono degli ideali, noncuranti dei pericoli e con determinazione. Ma anche senza nascondere le loro debolezze.

Un’atmosfera cupa, incombente; la nebbia reale e metaforica, che non permette di vedere cosa accade intorno, che fa sentire ancora di più l’isolamento e la paura. Una natura stravolta, passi incerti sul terreno scivoloso, orecchie tese per cogliere un rumore, un fruscio che può tradire una presenza nemica. Tutto questo si respira, di pagina in pagina, mentre si seguono i sentieri, si scende lungo crinali di colline e si guadano i ruscelli gonfi di pioggia. Il fango che appesantisce gli scarponi, l’umido che entra nelle ossa, il fumo delle sigarette nei polmoni.

Di Fulvia sappiamo che è esistita davvero, con un altro nome (lo ha rivelato anni fa il giornalista e scrittore Aldo Cazzullo): fu una ragazza intensamente amata da Fenoglio, non ricambiato. Si chiama Benedetta Ferrero, detta Mimma. Fenoglio si era perdutamente innamorato di lei, che racconta: “Avevo quindici anni, Beppe mi corteggiava. Mi piaceva passeggiare e chiacchierare con lui; mi piaceva sentirlo parlare, aveva una grande cultura. Ma non mi sentivo attratta fisicamente da lui, glielo dicevo sempre”. E lui le scriveva appunto lettere bellissime. La trasposizione romanzesca cambia i luoghi, i nomi, ma dentro la storia narrata c’è sempre lui, lo scrittore, l’uomo, quella parte di sé che ha vissuto la Resistenza, e ciò di cui si sostanzia il racconto e che si materializza nel suo alter ego Milton. Nome di battaglia – come dicevo all’inizio – non scelto casualmente: nasce dalla passione letteraria di Fenoglio per la letteratura inglese (Milton, l’autore del Paradiso Perduto), dalle sue traduzioni.

Qui potete leggere l’incipit.