«È stato molto triste?» «Triste?» Altro sorso. Piego le gambe, butto indietro la testa e guardo il soffitto. Non sento un vero bisogno di raccontare a Jan com’è andata. In ogni caso, ho ancora meno voglia di parlare dei suoi progetti. In me regna il silenzio, come dopo una lunga battaglia. Le grandi forze in conflitto hanno deposto le armi, di colpo si sono rese conto che hanno scordato da un pezzo il motivo per cui combattono. È passato così tanto tempo da quando si sono dichiarate guerra. (pag. 326)

Sedici parole, di Nava Ebrahimi, Keller editore 2020, traduzione di Angela Lorenzini, pagg. 330

Ho appena finito di leggere il romanzo di Nava Ebrahimi e devo subito condividere le mie impressioni. Mi capita sempre così, quando una lettura mi sorprende e mi avvince, sento l’urgenza di parlarne per non disperdere le impressioni ed emozioni che mi ha suscitato. Il romanzo è da poco uscito per i tipi di Keller, una delle CE da cui spesso attingo perché è una garanzia; inoltre, il richiamo all’Iran mi incuriosiva molto. E non sono rimasta delusa. Questo è uno di quei romanzi che restano nella memoria.

Mona, la protagonista, – che ha molti punti di contatto con l’autrice stessa – è nata in Iran, ma è emigrata, con i genitori, in Germania, a Colonia, fin da piccola. È lì che è cresciuta, rimanendo sempre in bilico tra le sue due identità, sentendosi più tedesca quando si trova in Iran, e più iraniana quando è in Germania. Nel corso degli anni, è tornata spesso in Iran; in una occasione per circa un anno, quando da giornalista aveva seguito, insieme ad un collega iraniano, un caso in cui era implicato un cittadino tedesco. Un viaggio in cui aveva allacciato un rapporto con Ramin, conosciuto ad una conferenza stampa. Un rapporto anch’esso rimasto in bilico, relegato alle occasioni in cui Mona tornava nel paese natale, ma mai sfociato in un legame duraturo. Un legame fragile, vissuto con una doppia valenza: come verso l’Iran, i sentimenti di Mona oscillano tra attrazione e repulsione.

I miei sentimenti si perdevano in volo da qualche parte nello spazio aereo tra l’Iran e la Germania. Quando atterravo a Colonia-Bonn, era tutto sparito. (..) Ramin capì ben presto – non cosa, ma che qualcosa mi succedeva, quando atterravo in Germania. (..) Qui ero un’altra versione di me stessa. Volevo risparmiargli la delusione. Quando vedevo il suo numero sul display, spingevo via il cellulare. Come se a telefonare fosse la morte in persona. Oppure, ancora più angosciante, la vita. (pag.178)

A Colonia, Mona ha un legame con Jan, un uomo che le lascia spazio e libertà ma il loro rapporto sembra poco profondo.

All’inizio del romanzo Mona torna in Iran insieme alla madre per dare l’ultimo saluto a maman bozorg, la nonna bizzarra e spudorata, instancabile snocciolatrice di storielle pruriginose, vanitosa e tranchant nei suoi giudizi su tutti e su tutto. Una donna che sembra possedere un’energia inesauribile, generosa e maliziosa; e, come da prassi, celebrata dalle donne piangenti che partecipano al lutto. Mona è spinta a tornare perché il legame con maman bozorg è l’unico vero perno attorno al quale ruota la sua vita, è solo per lei che sente di potere affrontare di nuovo il suo malessere quando mette piede nel paese, combattuta tra attrazione e repulsione.

Ancora un passo e la porta scorrevole si sarebbe aperta automaticamente. Sapevo cosa mi aspettava, eppure ogni volta mi sembrava di lasciarmi cadere dentro un buco nero. (..) Anche mia madre si ferma. Come se avessimo scelta. Come se potessimo ripensarci ancora, risalire subito in aereo e tornare indietro. (pag.27)

Il racconto procede ritmato, alternando il presente della visita in Iran, al passato in cui si intrecciano la vita in Germania e le relazioni con i parenti e gli amici iraniani. Il mondo affettivo di Mona ha tre poli: la nonna, la madre e il padre. Una madre che è stata data in sposa a tredici anni ad un uomo trentenne laureato in medicina, politicamente attivo all’inizio della rivoluzione, in cui aveva creduto di potere realizzare i suoi ideali maoisti, che invece lo avevano portato in carcere. Un padre con cui ha potuto trascorrere poco tempo. Una nonna sempre incombente sulle loro vite, anche quando era lontana fisicamente. Una madre che le è sempre sembrata trincerata dietro i suoi silenzi.

Mentre in passato Mona aveva vissuto i viaggi in Iran con un malessere strisciante, che rimaneva sempre lì ad offuscare i ricordi, la perdita della nonna conferisce alla visita una valenza diversa: la riscoperta di quei sedici vocaboli persiani che per molto tempo aveva confinato ai margini della sua vita, è la cartina al tornasole che fa riaffiorare i ricordi, che riporta alla luce le domande su un passato familiare che nasconde dei lati oscuri. Nei giorni canonici del lutto, e in quelli che seguono e che la portano in visita nella località in cui è nata, Mona si ritrova in compagnia di Ramin e della madre; è difficile tenere in equilibrio tre inquietudini, strettamente connesse, anche se per capirlo è necessario continuare a scavare in se stessi, fino a riuscire ad affrontare la verità.

I sedici vocaboli sono come una lente di ingrandimento attraverso la quale Mona ripercorre, cucendoli assieme, i pezzi della sua vita, le alchimie dei rapporti familiari e di relazione, i luoghi, in Iran e in Germania, i ricordi e i disagi di uno spaesamento livellato; e, alla fine, messi tutti in fila, formano un ariete, capace di sfondare il muro di menzogne costruito intorno alla sua esistenza. Il finale è spiazzante.

L’autrice, attraverso il personaggio di Mona, descrive probabilmente i suoi stessi sentimenti nel rapporto col paese natale: quello con l’Iran è un rapporto complesso nel quale configgono gli aspetti positivi legati alla tradizione, ai profumi, ai cibi, e quelli negativi, che scaturiscono dall’oscurantismo, e dall’ipocrisia di una morale pubblica che ufficialmente – per mano della Polizia morale – tenta di reprimere comportamenti ritenuti inadeguati, dall’altro fa sì che le persone agiscano tali comportamenti in luoghi privati.

«Qui tutti cercano convulsamente di essere come gli occidentali. Ma in realtà non hanno idea di cosa significhi, hanno solo antenne satellitari e MTV.» Ramin raccontava spesso di feste in case per le vacanze in montagna, lontano dalla città, dove nessun agente della Polizia morale poteva capitare, se aveva ricevuto per tempo un paio di banconote. E che là ognuno andava a letto con tutti, perché si credeva che in Occidente si facesse così, in azadi (libertà, n.d.r.). (pag. 169)

Allo stesso modo, emerge il senso di inadeguatezza di Mona in Germania: riaffiorano i ricordi di quando ad esempio nelle foto con le compagne lei è “l’unica macchia scura”, con i suoi capelli neri, la pelle più scura, le sopracciglia nere che spiccano in mezzo al biondo e alla pelle chiarissima delle altre bambine. È forse ciò che provano coloro che trapiantano le loro vite in luoghi diversi da quelli di nascita, non riuscendo più a sentirsi appartenenti del tutto né al paese d’origine, né a quello di adozione?

Mona è alla ricerca delle sue radici e delle sue verità; sente che è necessario compiere questo tragitto, armata solo di parole, che però, grazie alla loro forza evocativa, sono in grado di ricomporre un disegno che sembrava cancellato per sempre.

In una stanza grande quanto una solitudine
il mio cuore
grande quanto un amore
attende i pretesti semplici della sua felicità.

Chiudo la recensione riportando alcuni versi della poesia Un’altra nascita, di Forugh Farrokhzad, poetessa persiana (di cui ho parlato qui) che troviamo tra le pagine di questo bel romanzo come trait d’union tra la protagonista Mona e suo padre.

Qui potete leggere l’incipit del romanzo.

Ebrahimi foto