(..) ho scelto proprio quella partita. Forse perché l’abbiamo giocata tre volte e ha costruito nel tempo la trama della mia vita, delle mie amicizie, dei miei amori e, in fin dei conti, nella vita conta poco altro. (pag. 19)

Tempi supplementari, di Otello Marcacci, Edizioni Ensemble 2020, pag. 362

Ho girato a lungo intorno a questo romanzo; ne avevo letto recensioni molto positive da parte di due blogger che seguo e stimo, avevo intravisto diverse interviste con l’autore, me lo aveva raccomandato il suo primo editore. Avevo cercato il libro, usato – come mio costume – ma niente; nemmeno in biblioteca. Quando poi avevo ormai messo in stand by la ricerca – da riprendere dopo l’estate – ecco che il destino mi fa incontrare l’autore. Del resto abbiamo molte cose in comune: l’età anagrafica – che si porta dietro tutta una serie di ricordi comuni – la provenienza geografica – e anche questo genera mille assonanze – e, insomma, le congiunture astrali hanno fatto sì che questo libro finalmente si facesse leggere.

E le aspettative non sono rimaste deluse (vero Benny? Vero Alessandro?): un bellissimo romanzo, ben scritto, con quel quid di nostalgia, di imprevedibilità, di buoni (e anche cattivi) sentimenti, ma soprattutto con una grande storia di amicizia e di amore.

Ma partiamo dall’inizio. Il romanzo è preceduto da una lunga serie di citazioni in esergo che aiutano a mettere subito a fuoco la metafora attorno a cui ruota la storia; una partita di calcio – che sarà ripetuta tre volte – lunga una vita è il collante che tiene unito un manipolo di amici e avversari.

Tra tutte, la citazione di Nick Hornby mi è sembrata una buona traccia da seguire per capire il senso che sottende alla scrittura di questo romanzo, che nelle parole dello stesso Marcacci è “un lascito”: sì, perché la morte è là in fondo che aspetta, e anche se non saremo mai pronti abbastanza per andarle incontro, né tantomeno avendo messo ordine nelle nostre incasinate vite, lei è comunque là. E allora ecco che il lascito è la memoria: di un’epoca, dei suoi costumi, di ciò che era importante o insignificante, di cosa rincorrevano le persone. Una memoria che consola chi quell’epoca l’ha vissuta ma se la trova ormai alle spalle, e una memoria per chi non ha l’età per averla potuta vivere.

Il racconto si sviluppa come un viaggio, declinato attraverso le differenti età dei protagonisti nelle tre parti in cui è organizzata la narrazione, e anticipato dal prologo che è il “dopo”. Qui conosciamo due dei protagonisti; Giacomo, che è la voce narrante, e Paolo. Sono avanti negli anni, e Paolo è molto malato; proprio perché sa di non avere molto tempo davanti a sé, vuole che Giacomo organizzi la “rivincita” – in realtà, la rivincita della rivincita… – della partita che li ha visti contrapposti alla squadra dei loro avversari storici di una vita.

Nella prima parte Giacomo rievoca la sua infanzia e adolescenza, vissuta nella Grosseto degli anni Settanta, quando la città cresceva in modo caotico. La vita di Giacomo ruota intorno ai genitori e al fratello maggiore, e soprattutto agli amici: Marco il temerario, Bernardino il timido, Paolo l’acculturato, Cristiano l’estroso. C’è l’oratorio, le corse, la bici Saltafoss, il pallone Super Santos, i fumetti… E poi c’è l’estate, stagione in cui gli oratori organizzano le colonie estive a Marina di Grosseto. Giacomo e la sua banda vanno alla Stella Maris; una colonia “contenuta” con regole ferree, gestita da suor Maria, una religiosa progressista che si ispira alle idee della suora sessantottina Jeannine Gramick, pasionaria dei gay. Nella Stella Maris sono dunque accolti i diversi, come Cristiano, che è omosessuale. Ma anche David, che è ebreo. E anche le ragazze possono giocare a calcio, come Ilenia e Rosy. Con questa politica di inclusione suor Maria fa molto di più che intrattenere dei ragazzini durante la calura estiva: insegna loro dei valori che saranno il fondamento della vita da adulti.

Padre Albini, direttore del Cottolengo, è paladino dell’ortodossia più tradizionalista e reazionaria: i diversi no, le ragazze solo cucito e cucina… Sostenuto dalle famiglie che lo vedono come un baluardo in difesa dei valori più retrivi, padre Albini si fa vanto di crescere la migliore gioventù maremmana. E dunque questo scontro di vedute non poteva che concretizzarsi in una partita di calcio: una sfida che sembra già persa in partenza, e che vede da un lato giovani robusti, tecnicamente preparati, strafottenti e sicuri di vincere; dall’altro, un manipolo variegato che comprende gli amici storici di Giacomo, il nuovo amico David, due ragazze, e i Ramones, tre fratelli un po’ in carne. E Giacomo è designato allenatore da suor Maria.

Eravamo una banda di ragazzini incapaci di tenere a mente le regole minimali che tengono assieme una qualsiasi comunità, e io, che ero stato investito del sacro dovere di guidarli, non avevo alcun pensiero in grado di aiutarmi a progettare un piano di azione qualsiasi. Li osservavo cercando di farmi venire un’idea, ma di fronte a me vedevo un branco di animali eccitati, capaci solamente di gettarsi ora di qua ora di là ubbidendo a sconosciuti moti dell’anima. (pag. 71)

Tra ripensamenti, pressioni e la volontà di non dargliela vinta, Giacomo e i suoi alla fine accettano la sfida; e la partita non è più una semplice sfida agonistica, assume i contorni di due modi polarmente opposti di concepire le relazioni, i valori, la vita. E vincere o perdere è un equilibrio mutevole: ciò che conta è la dignità con cui accettare la superiorità in campo dell’avversario, che non è detto sia per ciò il vero vincitore. Spalleggiati da Suor Maria, tutti scendono in campo con la consapevolezza che lo spirito con cui affrontano la partita è il cemento che li terrà legati per tutta la vita.

«A volte si vince, a volte si perde, ma l’importante è farlo sempre con dignità. Adesso andate là fuori e finite la partita come una squadra. Questa è la Stella Maris: una squadra. Dimostriamogli che siamo uniti anche nelle difficoltà, perché a esserlo quando tutto va bene son capaci tutti». (pag. 113)

Nella seconda parte si fa un salto temporale, alla fine degli anni Novanta, quando tutti sono ormai diventati grandi e ciascuno ha percorso la propria strada. E persino quelli che una volta erano stati avversari, forse non lo sono più. Come Pietro Ciampolini detto il “Pescecane”, e il “Fighetta” e Gigirìva. Giacomo è diventato giornalista, ma ha dovuto lasciare molti sogni da parte; continua a tenere la bozza di un romanzo nel cassetto, ha un rapporto difficile con la famiglia e una relazione conclusa con una donna che, tuttavia, ancora lo attrae. Paolo nel frattempo è diventato medico, David ufficiale dell’esercito israeliano, Marco continua con la sua officina. Ma qualcuno manca all’appello… Dunque bisogna rimettere insieme la squadra, anche quella degli avversari, e giocare la rivincita. Sarà l’occasione per ritrovarsi e mettere sul piatto ciascuno i propri successi e insuccessi. E rivedere Ilenia, la compagna amata e poi volutamente dimenticata (mica tanto…). Ma, come spesso succede, le cose possono sfuggire di mano…

La terza parte ci traghetta al 2020 in cui scopriamo che Giacomo è diventato padre di Maristella, il cardine attorno a cui ruota la sua vita. La paternità è il banco di prova più difficile per Giacomo, quello che rischia di mandare a carte quarantotto la sua vita e quella di chi è al suo fianco. I problemi non trovano soluzioni e anzi  si incancreniscono, la frustrazione sembra inghiottire tutto. C’è la crisi economica, c’è l’immigrazione, c’è una città che ha cambiato volto. E i vecchi amici? Sono ancora tutti là? Che ne è rimasto del vecchio manipolo? C’è ancora spazio per i tempi supplementari?

Le tre parti in cui è suddiviso il romanzo, essendo organizzate secondo la scansione temporale, sono una sorta di specchio delle età dell’uomo. La gioventù, in cui tutto è ancora da venire, il futuro è così lontano che poco importa, ciò che conta è l’oggi, l’attimo assoluto. Poi la maturità, in cui si cerca di costruire qualcosa di duraturo, in cui si è spinti da ideali o da interessi e spesso si fa fatica a venire a compromessi con la realtà. Infine si scivola nello sguardo nostalgico della “terza età”, in cui si guarda al passato con molti rimpianti, e con poche soddisfazioni. Quello che rimane un punto fermo è l’amicizia, quel sentimento che mette in comunione le persone, che tralascia difetti e lati grigi del carattere, che se ne infischia di successi e scivoloni.

Il calcio è come la vita, ti scivola tra le mani, ci sono momenti in cui domini, altri in cui stai sotto e soffri. Alcune volte vinci, spesso perdi, altre ancora ti sembra di avere una seconda possibilità, come se l’arbitro ti concedesse i tempi supplementari. Se hai davvero fortuna puoi arrivare ai calci di rigore, ma a quel punto ti devi giocare il tutto per tutto e se fallisci sei fuori e ti resta solo la voglia di tornare indietro. Solo che non si può. (pag. 115)

Tempi supplementari” è un romanzo completo, che commuove e diverte: ha dentro di sé l’anima allegra delle bischerate toscane, e l’anima seria dei valori della vita. Nessuno è solo buono o solo cattivo, ma ciascuno declina il bene e male secondo convenienza e coscienza. Si fa commedia e dramma, in un continuo saliscendi, come nella vita reale; ci sono risate e riflessioni, complicazioni e rovesci della sorte. Ma ci dimostra che se un tempo supplementare ci è ancora concesso, forse vale la pena di giocarlo fino in fondo, e di non smettere mai di tentare di rubare una stella dal cielo.

Otello Marcacci (Grosseto, 1963) vive a Lucca. Ha pubblicato con Neo Edizioni i romanzi Gobbi come i Pirenei (2011) e Sfida all’OK Dakar (2016).  Ha scritto anche Il ritmo del silenzio (Edizioni della sera 2012), La lotteria (Officine editoriali 2013). Nel 2020 ha pubblicato: La terra promessa. Autobiografia Rock (Les Flâneurs Edizioni) e Tempi supplementari (Ensemble Edizioni).

Qui potete leggere l’incipit.

Vi consiglio di leggere anche le recensioni di Benny su Il verbo leggere, e di Alessandro Raschellà su Mia nonna fuma.