C’è una domanda che mi sono posta molte volte: quali sono le parole più ricorrenti nelle opere dei grandi scrittori?

Le lingue parlate comprendono un’enormità di vocaboli ed espressioni. Eppure, una persona, in media, si affida a un numero limitato di termini, il suo lessico fondamentale, in media poco più di 2000 lemmi ed ha una predilezione (a volte inconscia) per certe parole. Lo stesso accade agli scrittori/poeti? Credo proprio di sì, e credo anche che questo determini lo stile di ciascun autore.

Una sorta di lavoro simile lo feci al tempo della scrittura della mia tesi di laurea sui Sonetos del amor oscuro di Federico García Lorca; e risultò evidente come certe parole che ricorrevano con maggiore frequenza contenevano indizi rivelatori delle metafore che il poeta andava costruendo nei suoi componimenti.

Navigando in rete, ho trovato un interessante volume: si tratta del libro di Ben Blatt “Nabokov’s favourite word is mauve. What the numbers reveal about the Classic, Bestsellers, and our own writing”.

Blatt nabokov

Ben Blatt, statistico e giornalista, porta i big data nel canone letterario, esplorando la ricchezza di scoperte divertenti che rimangono nascoste nelle opere dei più grandi scrittori del mondo. Assembla un database di migliaia di libri e centinaia di milioni di parole, e inizia a porre le domande che hanno incuriosito migliaia di nerd delle parole e amanti dei libri per generazioni: Quali sono le parole preferite dai nostri autori preferiti? Uomini e donne scrivono in modo diverso? I bestseller diventano sempre più stupidi nel tempo? Quale scrittore di bestseller usa i cliché? Cosa rende grande una frase di apertura?

Blatt guarda al canone come a una miniera d’oro statistica da dragare per isolare modelli, varianze e singolarità. In “esperimenti letterari” su dizione, punteggiatura, cliffhanger, cliché e altri aspetti dello stile e dell’uso, Blatt utilizza i dati per sondare il corpo di “saggezza convenzionale” che circonda la scrittura creativa e per mettere in luce quale siano le abitudini linguistiche di alcuni grandi autori.

Ci sono alcuni elementi attorno a cui le scelte ruotano. Ad esempio il genere di appartenenza determina “la voce” che l’autore sceglie per caratterizzare l’opera. Quindi nei libri di Agatha Christie le parole più ricorrenti sono “indagine” e “alibi”, così come in Dickens troviamo “ricongiungere” e “cuore”. Se poi veniamo ad autori più prossimi a noi, potremmo trovare delle sorprese interessanti; come nel caso di John Updike nelle cui opere le parole più ricorrenti sono “coglione” e “fottuto”.

Il punto culminante del libro è lo sforzo di Blatt “per verificare se esiste qualcosa come un’impronta digitale letteraria per scrittori famosi“. Analizzando i testi, Blatt scopre che gli autori finiscono per scrivere in un modo unico e coerente, proprio come un’impronta digitale reale è distinta e immutabile.

Blatt analizza anche quanto gli scrittori/scrittrici facciano ricorso a modi di dire o cliché; viene fuori che James Patterson viaggi ad una media di 160 cliché ogni centomila parole, il doppio di quanto faccia J.K. Rowling, e che il suo jolly sia “che ci crediate o no“.

Tra i nomi più noti, ecco cosa succede: Jane Austen abbonda con i suoi “con tutto il cuore”, Donna Tartt è molto affezionata all’espressione “troppo bello per essere vero”, Salman Rushdie abusa di “l’ultima goccia” e Dan Brown stravede per “chiudere il cerchio”.

«Ray Bradbury era un fanatico delle spezie: è il primo autore per frequenza d’uso delle parole menta e noce moscata e tra i primi nell’uso di cannella e spezie. E forse la ragione c’è. In un’intervista raccontò che uno dei suoi ricordi più cari era l’odore di cannella della dispensa della nonna» dice Blatt. «Per Nabokov invece la parola magica è malva. Inoltre Nabokov cita un colore 460 volte ogni 100 mila parole, oltre quattro volte l’uso comune. Anche qui c’è una spiegazione: lo scrittore soffriva di sinestesia, ossia non solo vedeva i colori ma li sentiva».

La statistica applicata al testo può rispondere anche a domande impertinenti. Per esempio: gli autori seguono davvero i consigli che elargiscono nelle interviste o nei corsi di scrittura? «Prendiamo uno degli ospiti fissi delle liste delle cose da evitare se si vuole scrivere bene: l’avverbio. Uno dei suoi massimi detrattori è Stephen King, in compagnia di Hemingway. Ma mentre Hemingway usa davvero meno avverbi degli altri (80 ogni 10 mila parole), Stephen King razzola maluccio, ossia nella media degli scrittori: 105 avverbi ogni 10 mila parole» spiega Blatt. Ad abbondare proprio sono invece J.K. Rowling (140 ogni 10 mila parole) e E.L. James (155). «Il caso dell’autrice di Cinquanta sfumature di grigio è emblematico di come successo commerciale e bello stile non sempre vadano a braccetto» commenta Blatt.

Hemingway è uno degli scrittori più parchi con i punti esclamativi. Il più prodigo è invece James Joyce: 1.105 ogni 100 mila parole. Cinque volte più di Nabokov, dieci più di Faulkner e ben 22 volte più di Hemingway e Leonard. Tolkien (767) e J.K.Rowling (670) sono invece sulla scia di Joyce.

La ricerca di Blatt su dizione e genere è particolarmente rivelatrice. Guardando un’ampia fascia di letteratura del Ventesimo secolo, calcola i verbi più spesso usati per descrivere un genere rispetto a un altro. I risultati mettono in luce molti esempi di sessismo che attraversano la lingua. È molto probabile che i personaggi maschili borbottino, sorridano, gridino, ridacchiano e uccidano; le donne sono destinate a rabbrividire, piangere, mormorare, urlare e sposarsi. Gli uomini sono tipi ribelli, allegri, assassini, mentre le donne sono delicate e mansuete, tranne quando si degnano di interrompere gli uomini, come spesso fanno.

Nel 1995 uscì The Logophile’s Orgy, un libro di Lewis Burke Frumkes che raccoglieva le parole e le espressioni preferite da diversi scrittori celebri, da James Clavell a Margaret Atwood, e da Larry King a Joan Rivers.

Beh, a quanto pare non sono l’unica a porsi la fatidica domanda… e voi, avete notato delle ricorrenze particolari nelle opere degli autori che avete letto?