Non è così per Micol Cohen, la paura per lei è soltanto uno scomodo personaggio della narrazione che da anni la madre le ripete di quegli ultimi giorni a Tripoli nel 1967. “Saranno ancora imbevuti di odio?” si chiede guardando i passeggeri intorno. Sanno che nel loro Paese abitavano degli ebrei? E che erano libici quanto loro? Lo ignorano, è pronta a scommetterci. Sulla loro esistenza è calato l’oblio. Non l’ha imposto il tempo nel suo scorrere, ma la ferocia degli uomini interessati a costruire altre storie. (..) Con gli anni ha imparato a darsi fiducia, a sopperire alla mancanza di sicurezza di cui suo padre tanto si crucciava. (pag. 145)

Qual è la via del vento, di Daniela Dawan, edizioni e/o 2018, pagg. 239

Il romanzo di Daniela Dawan è una storia familiare che ci mette in contatto con una famiglia di italiani ebrei costretti a fuggire dalla Libia, perseguitati alla fine degli anni Sessanta durante la Guerra dei sei giorni scoppiata in Medioriente.

Nel giugno del 1967, allo scoppio della Guerra dei Sei Giorni – il conflitto arabo-israeliano che vide contrapposti Israele e i paesi arabi limitrofi – le ripercussioni e le ritorsioni nei confronti degli ebrei residenti nei paesi arabi insanguinano le strade; e per la strade di Tripoli si scatena l’inferno. Ḕ cominciata la caccia all’ebreo, i cimiteri e le sinagoghe vengono profanate, i loro negozi depredati e le loro case marchiate con il gesso come era già avvenuto anni prima in occasione del pogrom del 1945.

Nel 1967 Micol Cohen è una fragile bambina di nove anni che – come avviene per migliaia di ebrei – all’improvviso vede il suo mondo crollarle addosso. Il pericolo è appena fuori dalla porta della scuola in cui lei si trova e dalle porte delle case, che ormai non sono più rifugi sicuri. Rimane intrappolata nella scuola cattolica dove la sua presenza è appena tollerata (gli altri sono bambini italiani cristiani; bisognerebbe aprire un capitolo solo su questo argomento): mentre gli altri bambini sono tornati a casa, lei è rimasta da sola; la madre superiora, implorata dai genitori, la trattiene per la notte affidandola ad una suora giovane, intimando ai genitori di venirla a prendere il prima possibile. Spaurita, isolata, Micol vive una notte angosciosa; ha paura, non capisce cosa stia accadendo e perché i suoi genitori non arrivino a prenderla, come hanno fatto tutti quelli degli altri bambini.

Scuola Tripoli il cancello del cortile b

Grazie all’aiuto di un ambiguo amico arabo del padre, che riveste una posizione politica importante, il mattino successivo i genitori riescono a riprenderla, poi si barricano tutti in casa dei nonni paterni, mentre i nonni materni, gli Asti, si rifugiano a casa del figlio fino a quando Ruben Cohen, suo padre, non riuscirà finalmente a procurarsi con l’aiuto del suo amico i visti per espatriare in Italia.

Questi sono gli avvenimenti che si susseguono con un ritmo incalzante nella prima parte; il tempo scandito nell’oggi dalla paura e dall’angoscia viene intervallato dal tempo dei ricordi a cui i luoghi familiari sono legati. Su tutto aleggia il ricordo della figlia Leah, un pensiero che viene però custodito nel silenzio e nella reticenza che coprono la sua prematura morte, prima della nascita di Micol.

Micol avrebbe mille domande da rivolgere ai suoi genitori e ai nonni a proposito della sorella, ma tutti sviano le sue richieste e a lei non resta che tenerla accanto a sé nella sua immaginazione, e crearsi una sorella virtuale, una presenza che le tiene compagnia nella sua solitudine infantile, lei che è una bambina fragile e insicura e che non ha compagni di gioco.

In questa parte colpisce la dimensione intima e familiare: attraverso i ricordi, l’autrice pian piano ricostruisce la saga delle due famiglie dei genitori di Micol, e il matrimonio precoce tra i genitori, Virginia e Ruben. Le due famiglie di origine sono molto diverse: da un lato i genitori di Virginia, colti e liberali, dall’altro, il tradizionalismo quasi integralista dei genitori di Ruben.

Tripoli museo_libia_2

Dal racconto emerge quanto forte sia il radicamento culturale di Ruben alla vita tripolitana, al suo paesaggio, agli odori, alle tradizioni; quando abitava nel vecchio quartiere arabo c’erano sì continue scaramucce tra ragazzi arabi ed ebrei, ma all’interno di una convivenza che durava da secoli, e che tutto sommato aveva retto. Ruben lascia Tripoli per cause di forza maggiore, abbandonando la casa e tutti i suoi averi, ma ciò che rimane a Tripoli e che lo tormenterà per il resto della vita è lo struggimento, che diverrà un male corrosivo nell’esilio in Italia, dove si rifugiano.

Nella seconda parte riprendiamo le sorti familiari dei Cohen nel 2004, dopo trent’anni dalla fuga dalla Libia e l’arrivo a Roma. Micol è ora una donna adulta, che si è lasciata alle spalle le tradizioni familiari e religiose, i ricordi tormentati dell’infanzia, ed è diventata un avvocato di successo, totalmente dedita al lavoro. Nell’esilio di Roma suo padre Ruben, che non aveva trovato la forza morale e la volontà per inserirsi in un nuovo mondo, si è lasciato andare, morendo, ancora giovane, di un male incurabile.

Il sentimento della perdita è una malattia, si espande veloce, inocula la convinzione che ogni sforzo sia vano; che tutte le cose, affetti o progetti, siano destinati a sicura sconfitta. Crea un incantesimo che cristallizza il tempo nel momento e nel luogo in cui si è verificata la perdita.  Aromi di felfel, cumino, gelsomino, atar: gli avrebbero più riempito le narici e il cuore? Ruben si sentiva in bilico tra due mondi: quello perduto e il nuovo a cui, per quanti sforzi facesse, non riusciva ad appartenere. (pag. 157)

A riportare Micol in Libia è un gruppo di anziani espatriati ebrei, che la contatta – come molti altri che hanno vissuto la stessa fuga – perché il governo di Gheddafi ha paventato la possibilità di ottenere alcuni risarcimenti dei beni abbandonati all’epoca dell’esilio. Micol decide di fare il viaggio che le consentirà di riappropriarsi delle sue radici, di sciogliere alcuni misteri che hanno affollato la sua infanzia e di fare finalmente luce sulla morte della sorella Leah. Un viaggio in cui ritroverà colori, immagini, suggestioni e memorie disseminati in una città molto diversa da quella dei suoi ricordi d’infanzia.

Alla dimensione intima e familiare della narrazione principale fa da bilanciamento la cronaca storica, la ricostruzione dei fatti e del clima che ammorba la città di Tripoli in quei drammatici giorni e settimane a seguito del conflitto arabo-israeliano. Se da un lato gli ebrei coltivavano il sogno della Libia come stato multietnico, indipendente e capace di tenere insieme in pace le diverse componenti della società, dall’altra i fatti prendono un’altra strada, con sanguinosi disordini che sfociano nei capovolgimenti politici avvenuti nel paese nel 1969, con il colpo di stato che depone re Idris e porta al potere il colonnello Gheddafi.

Qual è la via del vento è un bel romanzo che giustappone l’odissea di famiglie ebree con il momento storico in cui hanno vissuto; è anche una lettura che ci spinge a riflettere sulla drammatica situazione politica in cui tuttora si trova la Libia.

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Daniela Dawan è nata a Tripoli (Libia), dove è vissuta fino all’età di dieci anni. Costretta a fuggire con la famiglia per gli eventi drammatici che avvennero in Libia durante la Guerra dei sei giorni (giugno 1967), approda in Italia.
Già avvocato penalista, è ora Consigliere della Suprema Corte di cassazione “per meriti insigni”. È vissuta a Milano, Bruxelles, New York. La sua attività attuale si svolge prevalentemente tra Milano e Roma.
Ha esordito nella narrativa con numerosi racconti e con il romanzo Non dite che col tempo si dimentica (Marsilio Editori, 2010).

Qui potete leggere l’incipit.