Diceva mio nonno che ogni parola ha il suo padrone e che una parola giusta fa tremare la terra. La parola è un fulmine, una tigre, un uragano, diceva il vecchio guardandomi con rabbia, mentre si serviva alcol di farmacia, ma guai a chi usa le parole alla leggera. (..) Sai che succede a chi dice bugie? La parola lo abbandona, e chi rimane senza può essere ucciso da chiunque. ( Chaco, pag. 77)

Il nostro mondo morto, di Liliana Colanzi, Gran Vía edizioni 2017, traduzione di Olga Alessandra Barbato, pagg. 127

Gli otto racconti della scrittrice boliviana Liliana Colanzi inclusi nella raccolta Il nostro mondo morto potrebbero a ragione essere classificati come storie dell’orrore. Storie che si collocano alle soglie di mondi diversi: il terreno e il fantastico, la fantascienza e l’idiosincrasia indigena, la memoria e l’incubo.

La ricerca dell’altro e l’inclinazione ad esplorare le gallerie dell’immaginario sono il tratto distintivo di questo libro, che sembra allinearsi alla tradizione del racconto fantastico ispano-americano. Superstizioni indigene, credenze popolari, leggende ancestrali rivivono negli scritti di Colanzi. La scrittura dell’autrice boliviana appare come un tentativo di dare voce a quei profondi fiumi di magia ancestrale, del mito collettivo, dell’immaginazione che sopravvive nella cultura degli indios Colla, degli Ayoreos, in conflitto con il mondo moderno.

Le voci nei racconti assumono varie forme corporee che culminano in epifanie, che sfociano cioè in una qualche forma di illuminazione. Come accade in “Alfredito”, dove la giovane protagonista, rimasta impressionata dalla morte di un compagno di scuola, pensa:

Una volta, quando ero piccola, vidi uccidere un maiale. (..) Secondo la mia tata Elsa, che ne sapeva di queste cose, dev’essere stato allora che presi lo spavento, la bizza, la cosa cattiva (..) Dicono che con lo spavento a volte si riceve anche un dono: la chiaroveggenza, per esempio, la capacità di vedere senza aver visto. Ma tutto questo c’era da prima. Quello che c’è, torna, diceva sempre la mia tata. Io credo piuttosto che tutto ebbe inizio con la morte di Alfredito. (Alfredito pag. 17-18)

Nel racconto si apre una finestra su un mondo più primitivo per tramite della tata Elsa, che era nipote di un’india ayorea: “Mia nonna si era occupata di portare via Elsa dalla foresta quando era solo una ragazzina, ma gli anni trascorsi in città non erano riusciti a toglierle la foresta da dentro. Una delle usanze che aveva ereditato dai suoi antenati nomadi era il piacere di masticare i pidocchi che mi toglieva dalla testa.”

O come accade quando la classe è in visita ad un sito Inca in cui venivano praticati sacrifici umani e il custode li avverte che le anime ancora sorvolavano le pietre. E la protagonista inizia a domandarsi cosa ne sarà di Alfredito, del suo corpo che inizia a decomporsi e del suo spirito che vaga come un fantasma. 

Ma se l’apparenza autoctona è tollerata solo come residuo e rimane una presenza inquietante e vergognosa, la realtà di chi può sfuggire a quei confini territoriali alla ricerca di nuovi scenari non è esattamente un idillio. La possibilità di essere in un’università americana, nell’elite di un campus gringo, è una delusione. L’adattamento è sempre difficile. Così, l’addomesticamento necessario per unirsi a una nuova idiosincrasia si vede sia nei personaggi che circolano nel territorio nordamericano sia nei luoghi sudamericani dove la tensione tra coloni e indiani non si attenua mai.

L’Onda ritornò durante uno degli inverni più feroci della costa orientale. Quell’anno, tra novembre e aprile, si suicidarono sette studenti: quattro si buttarono nello strapiombo dai ponti di Ithaca, gli altri si affidarono al sonno confuso dei farmaci. Era il mio secondo anno alla Cornell e me ne restavano ancora altri tre o quattro, o forse cinque, sei. Ma non importava. A Ithaca, tutti i giorni si fondevano in uno solo. ( L’Onda. Pag. 29)

Con un tratto di Alice di Lewis Carroll, e in balia di déjà vú, la protagonisa de L’Onda sperimenta in prima persona l’inutilità di sterili dibattiti accademici che ignorano la ricchezza di un certo esoterismo: “Passano ore a discutere, teorizzando su etica ed estetica, camminando in fretta per evitare il lampo degli occhi, organizzando simposi e dibattiti, ma non riescono a riconoscere un angelo nemmeno quando gli soffia in faccia.”. 

L’Onda era arrivata e io, che avevo passato gli ultimi due anni spostandomi da un paese all’altro nel tentativo di sfuggirle (..) mi fermai di fronte allo specchio per ricordare un’ultima volta che la realtà è il riflesso sul vetro e non l’altra cosa, quella che si nasconde dietro. (pag. 30)

Gli studi accademici non forniscono alcun supporto di fronte a questa ondata, una metafora di ciò che verrà estinto, di ciò che finirà per liquidare “gli esseri difettosi come me“, dice. 

Tutti i corpi di queste storie convivono con “l’altro”, ma non possono specificarlo, nominarlo esattamente, spesso nemmeno lo individuano davanti ai propri occhi. Come  la cholita (termine dispregiativo per indicare una donna meticcia) che, illuminata dopo aver mangiato un cactus allucinogeno, comprende la dimensione dell’universo.

O Ruddy, un obeso drogato di pillole per dimagrire in “Meteorite“:

Aveva cominciato a dormire male da quando il dottore gli aveva prescritto le pillole per dimagrire. Era come se il cervello lavorasse a una velocità diversa, incapace di bloccare i pensieri insistenti o i rumori della notte. Si svegliava scosso da una botta di adrenalina, pronto a difendersi dalla zampata di una fiera o dall’attacco di un ladro mascherato, e non riusciva più a riaddormentarsi. (..) E poi c’era l’interminabile conversazione con se stesso, la spaventosa vocina nella sua testa che gli segnalava quello che aveva fatto male, il dolore alle tempie che arrivava come una raffica di vento. (pag.48-49)

Una serie di coincidenze che culminano nella caduta del meteorite gli suscitano l’idea di essere perseguitato da una forza malvagia a cui finirà per arrendersi.

L’Occhio esplora la dualità apocalisse-fede. La protagonista è una giovane donna sotto la supervisione soffocante di sua madre, da quando è nata con il marchio del Nemico sulla fronte. Nel corso del racconto, la madre e la figlia formano due forze opposte: la prima è l’Occhio (castità, ordine e vigilanza) e la seconda è quella della giovinezza (ormoni, sessualità, sperimentazione). È interessante osservare come entrambe le forze si dispiegano in una direzione diversa ma con la stessa coscienza, quella della fine.

Nei racconti la fantasia si diluisce nel terrore e nella suspense, passa attraverso aspetti legati alla superstizione, alla magia, alla stregoneria; i corpi mettono alla prova i loro limiti, flirtano con il suicidio in vari modi: perdono peso patologicamente, si ubriacano di alcol da drogheria, aspirano a diventare animali metamorfizzati, temono di generare bambini-mostri, bramano la calma delle droghe e degli ansiolitici.

C’è una tensione in questa modernità che intrappola gli indios con il suo inganno (come in L’uccello, dove Colanzi riprende le testimonianze degli indigeni Ayoreo citati nello studio antropologico di Lucas Bessire) relativa ai proprietari terrieri che arrivano dall’estero e si stabiliscono in un territorio che detestano, come lo zio Goran, che costruisce una casa in un paese “che ha disprezzato fino al giorno della sua morte“. 

In Chaco – che affronta in modo diretto la violenza con cui le popolazioni autoctone venivano trattate – vediamo che “da giovane il nonno aveva collaborato con il governo che aveva cacciato i matacos dalle loro terre … Gli emissari del governo cacciarono i matacos a schioppettate, incendiarono le loro case e costruirono lo stabilimento petrolifero Viborita“. Più avanti leggiamo: “Non fecero molte domande, era solo un indio“, ucciso da una pietra lanciata dal protagonista. Vediamo che il fantasma dell’indiano si impossessa del corpo del narratore. È la stessa pietra con cui ha annientato l’indio quella che usa per uccidere suo nonno, in un eccentrico regolamento di conti che ci racconta questo debito storico che continua a generare sofferenza, come spiriti impossibili da mettere a tacere.

In molti racconti emerge un bizzarro sincretismo che evoca i residui dei coloni in un territorio intriso delle tradizioni dei popoli nativi. Molti miti (e pregiudizi) sono attribuiti agli indigeni Collas (Bolivia occidentale), ai matacos e alla tradizione ayoreana; Colanzi  mescola il fantastico e la fantascienza con la storia dei popoli indigeni. Questo non solo lo utilizza come elemento che si aggiunge al misticismo delle sue storie, ma crea anche le condizioni per scatenare la colonizzazione al contrario.

Il nostro mondo morto è la storia che dà il nome al volume e ci porta nei deserti di Marte, come le finzioni di Ray Bradbury, in una sorta di incubo che riassume una visione disperata del futuro. 

(..) chilometri di dune color ocra in cui niente era vivo, un deserto silenzioso che ti alitava sul collo, desideroso di ucciderti. (pag. 89)

Mirka, la protagonista, ha accettato di fare parte di un progetto di colonizzazione del pianeta rosso, con un contratto che la lega alla Lotteria Marziana. Intorno alla base, “scarti di cinesi, indiani, russi e americani. Una discarica di dispositivi obsoleti che avevano esaminato questo stesso suolo in un periodo antecedente alla prima ricollocazione”.

Il racconto gioca con quel desiderio avvolto dalla paura di sapere cosa esiste al di là del conosciuto. Può essere oltre la morte, ma anche oltre il territorio, oltre il tempo, oltre l’universo. Durante una perlustrazione con due colleghi, la protagonista crede di aver visto un “cervo d’oro, come quelli degli Urali”, le sue pianure. Sa che non è possibile. Tuttavia, il suo cuore sta accelerando e le sue idee si prosciugano. E se fosse stato reale? E sa anche che la sola idea di rimanere incinta in quella missione senza biglietto di ritorno è pericolosa e assurda, ma chiede a uno dei suoi compagni, in un momento di disperazione, o forse di estrema lucidità, di metterla incinta. Non importa che il bambino possa nascere con bizzarre malformazioni: due teste o pinne al posto degli arti o il cuore che batte fuori dal petto. Non importa che lei stessa tra pochi anni non esista più. In quel momento vuole essere madre perché la maternità rappresenta l’abisso dell’ignoto che ha la doppia funzione del possibile ed egoista. Un atto di ribellione senza sbocco. 

La morte aleggia su tutti i racconti. “La morte mi incuriosisce come un burrone che guardiamo ogni giorno, alla ricerca di modi per stringere un patto con lui per rendere più sopportabile l’idea che a un certo punto cadremo dentro“, dice Liliana Colanzi in una intervista. Il modo in cui l’abisso condanna ciascuno alla non esistenza è terribile, misterioso e brutale. Forse è per questo che nelle sue storie gli spettri fanno dei cammei tra i vivi: il fantasma come possibilità irrisolta che torna a vagare e infastidire finché non viene trattato con il rispetto che crede di meritare. Forse la trasversalità tematica potrebbe essere dovuta al fatto che Colanzi ha passato anni a guarire da una dipendenza dai sonniferi che l’ha portata a pensare molto alla morte e a interpretarla come “una liberazione di sé, che può essere una prigione infernale, e anche come transizione verso l’ignoto, il non umano ”.

Il nostro mondo morto è una raccolta di testi davvero “diversi” da tutti quelli che ho letto, una lettura sfidante, dove niente è scontato, dove a volte si è turbati o si avverte un moto di repulsione. Sono racconti che non lasciano indifferenti, di quelli che piacciano o non piacciono, senza vie di mezzo.

Colanzi

Liliana Colanzi, vincitrice del Premio Internacional de Literatura Aura Estrada 2015, nasce in Bolivia nel 1981. Prima di Il nostro mondo morto, ha pubblicato altre due raccolte di racconti: Vacaciones permanentes nel 2010 e La ola nel 2014. È considerata una delle più promettenti giovani scrittrici latinoamericane.