Una volta siamo stati al lago per tutta l’estate. Nel bosco c’erano le case sugli alberi e sull’acqua c’erano le barche. Bastava una canoa piccolissima per arrivare all’oceano. Attraversavamo il lago remando, oltre la palude, lungo il torrente, fino a raggiungere la foce, dove l’acqua incontrava il cielo. Correvamo sulla spiaggia nella brezza salata, lasciando le barche sulla sabbia. Una volta abbiamo trovato il teschio di un dinosauro. O forse era un delfino. Uova di razza, gusci di chiocciole e vetrini di mare. Prima del tramonto tornavamo verso il lago, per cena. Le strolaghe lanciavano i loro richiami spettrali.

I figli del diluvio, di Lydia Millet, NN Editore 2021, traduzione di Gioia Guerzoni, pagg. 208

Ironico e drammatico, crudo e fiabesco, I figli del diluvio è un romanzo vertiginoso, che parla di una società fragile che corre ciecamente verso il disastro, dove gli adulti hanno perso ogni visione e dove la speranza può esistere solo nella radicale innocenza dei bambini, che si affidano alla Natura trovando nuovi linguaggi, nuovi sguardi, nuove risorse per reinventare il mondo.

Ben Giles

Un numero crescente di romanzieri letterari è intrappolato in un paradosso creativo: come scriviamo della crisi climatica? Il detto di Flaubert su un flagello globale del suo tempo – “Raccontalo: basta” – non sembra applicarsi, perché le prove sono già davanti agli occhi dei lettori ogni giorno e si rifiutano di affrontarle. Molti degli effetti tradizionali della letteratura – risoluzione, o eroismo individuale, o catarsi o speranza – sembrano conforti fasulli, trasformazioni interiori fuorvianti che sembrano solo, piuttosto che costituire, un cambiamento effettivo. La cosa più sconvolgente di tutte, forse, è la consapevolezza che anche il miglior romanzo non è una forma di azione diretta. Non altera nulla, i suoi effetti sono isolati e casuali, la voce con cui predica non può superare il coro.

Lydia Millet ha un master in politica ambientale e vive e scrive lontano dai soliti recinti letterari, nel deserto fuori Tucson, dove lavora per il Centro no profit per la diversità biologica. Sebbene la sua produttività letteraria sia rimasta impressionante, si ha la sensazione che sia passata in secondo piano per lei in qualche modo, che, come tutti i migliori scrittori, non scriva davvero perché vuole ma perché non può non. (NYTimes)

Un’estate, un gruppo di famiglie si riunisce in una villa a due passi dall’oceano per trascorrere insieme una lunga vacanza. Per madri e padri significa passare il tempo tra vizi e alcol, in un infinito happy hour; mentre i figli, ragazzi e ragazze dai sette ai diciassette anni, lasciati a loro stessi, creano una comunità e si nascondono l’un l’altro l’identità dei genitori, cercando di non essere collegati in alcun modo a quegli adulti imbarazzanti.

Ben Giles

Ma l’arrivo di un diluvio devastante sconvolge i loro piani. Il piccolo Jack, ispirato da una Bibbia illustrata, decide di salvare più animali possibile; sua sorella Eve e gli altri ragazzini lo aiutano, raccogliendo viveri nelle case sugli alberi. Ma la tempesta infuria, distrugge la villa e le città, e per salvarsi i ragazzi sono costretti ad abbandonare i genitori, depressi e disorientati, per ritrovarsi da soli in un territorio caotico e irriconoscibile.

Il narratore è l’adolescente Eve; i dialoghi sono una ricreazione perfetta di quegli anni di transizione in cui gli adolescenti stanno ancora trascinando le nuvole dell’infanzia mentre iniziano a cogliere le sfide dell’età adulta. Privati ​​dei loro cellulari e dell’accesso a Internet – “Eravamo tenuti in una prigione analogica” – i ragazzi si divertono nei boschi, pagaiano su barche a remi, si baciano in soffitta.

Eve è una narratrice accattivante, che passa senza sforzo dal disgusto annoiato di un’adolescente impaziente all’intuizione riflessiva di una giovane donna matura. Parla alla prima persona plurale – “noi” – per passaggi così sostenuti che a volte il romanzo suona come la voce comune dell’adolescenza. Ma in un istante, Eve può sentirsi rimossa e separata, totalmente dedita a proteggere il suo fratellino, Jack, il che è importante perché i loro genitori non prestano alcuna attenzione. Il ritratto di Jack è pieno di tenerezza: il suo amore per gli animali, il suo tentativo di salvataggio, sono mediati e spinti dalla sua fragilità che però è bilanciata dalla volontà tenace e dalla curiosità.

Ben Giles

Millet inizia a raccontare la storia dell’Arca di Noè attraverso una storia moderna sui cambiamenti climatici per produrre una visione sconvolgente del nostro futuro apocalittico. Il romanzo funziona in modo così efficace perché è un’allegoria che resiste costantemente al prevedibile passaggio dell’allegoria. La trama è piena di allusioni sacre – il Diluvio, gli angeli, Betlemme, una crocifissione, un deus ex machina e altro – ma sono tutte distorte.

Millet affronta la crisi esistenziale del cambiamento climatico con una comprensione tecnica della scienza e una comprensione umana del cuore. È anche ferocemente spiritosa. Quella rara combinazione ha reso le sue storie sull’estinzione delle specie e sul riscaldamento globale profonde e stranamente divertenti.

Dopo aver completato gli studi universitari a Toronto e nella Carolina del Nord, nel 2010 Lydia Millet è stata tra i finalisti per il Premio Pulitzer per la narrativa con Love in Infant Monkeys mentre due anni più tardi, grazie al romanzo Ghost Lights, è apparsa nelle liste dei migliori libri dell’anno stilate da New York Times e San Francisco Chronicle. Nel 2012 la scrittrice è stata finalista con Magnificence del Los Angeles Times Book Prize, nel 2019 è stata riconosciuta dall’American Academy of Arts and Letters per Fight No More e nel 2020 è stata selezionata per il National Book Award per la narrativa con A Children’s Bible, tradotto e pubblicato in Italia da NN Editore col titolo I figli del diluvio.

(Le opere riprodotte sono dell’artista Ben Giles. Alcuni stralci sono ripresi dall’articolo di Ron Charles apparso sul WP).