Allora credeva che il ghiacciaio fosse eterno e immutabile, una parte della montagna che avrebbe sempre ritrovato lì tra la roccia e il cielo. Suo padre invece aveva capito cosa stava succedendo: qualcosa scompare e qualcos’altro prenderà il suo posto, gli disse. Così va il mondo, sai? Siamo noi che abbiamo sempre nostalgia di quello che c’era prima.

La felicità del lupo, pag. 87

La felicità del lupo, di Paolo Cognetti, Einaudi 2021, pagg. 141

Cognetti ci ha abituato a seguirlo per pendii innevati, a scalare con lui sentieri e sentimenti sollecitati dalla montagna, cammini faticosi dove, alla fine, l’importante non è tanto arrivare fino alla vetta, quanto andare, percorrere col proprio passo quei sentieri e trarne felicità. Ce ne siamo resi conto leggendo Senza mai arrivare in cima, racconto del suo viaggio in Nepal, verso l’Himalaya (e guarda caso la guida che accompagna Silvia sul Rosa in questo nuovo romanzo è uno sherpa).

Nel nuovo romanzo Paolo Cognetti propone pagine lievi e struggenti dedicate alla montagna e alle persone che la amano al punto da sceglierla come luogo d’elezione. O persone che ci sono nate e che non hanno alcuna intenzione di lasciarla, anche quando sembra un ambiente duro o solitario. La montagna è il luogo di elezione anche dello scrittore, luogo che ha frequentato fin da bambino e in cui ha deciso di vivere. Una scelta che appare controcorrente, in una società, specialmente quella milanese (e più in generale delle città industriali) più propensa a modelli competitivi e frenetici, dove la ricerca della felicità è legata al benessere economico, alla carriera. Il protagonista scrittore quarantenne (un alter ego di Cognetti) decide di lasciare la città per andare definitivamente a vivere in montagna; e insieme alla città e ai suoi ritmi, Fausto lascia anche la moglie, ormai prigionieri di una relazione incapace di slanci positivi. Fausto scappava già da un pezzo dalla sua vita in città con la moglie: appena poteva si rifugiava in montagna, sottraendosi alla dialettica negativa che ormai caratterizzava il rapporto di coppia. E che sua moglie gli rinfacciava (“Ci pensi mai agli altri mentre fai la tua decrescita felice?” gli domanda quando torna per il divorzio e la vendita della casa).

Foto credits: https://www.gulliver.it/itinerari/fontana-fredda-punta-da-cheneil-2/

Fausto si stabilisce a Fontana Fredda, sotto al Monte Rosa, per provare una ripartenza. Grazie a Babette, la proprietaria del ristorante di un rifugio – «Il pranzo di Babette» (ispirata dall’omonimo racconto di Karen Blixen) – Fausto sbarca il lunario facendo il cuoco, attività che gli piace molto, e lì conosce Silvia, la cameriera, una ragazza molto più giovane di lui, che passa da un lavoro stagionale all’altro, girando per il mondo, in attesa di decidere cosa fare della sua vita. Fausto stringe amicizia anche con un abitante locale, ex guardia forestale e gattista, frequentatore del rifugio; si chiama Santorso, «come l’antico monaco irlandese eremita fra i montanari» e tra loro si instaura un rapporto fatto di solidarietà e comprensione.

Fausto si era accorto, perfino su di sé, che la montagna la pensavi in un modo quando ci vivevi, e in un altro quando ne stavi lontano.

Tutti loro – Fausto, Babette, Silvia e anche Santorso (che però è un lupo stanziale) – hanno in comune molte cose: un’innata selvatichezza, l’amore per la montagna, ma anche qualcosa di più sottile; fuggono da qualcosa (relazioni al capolinea o difficili, scelte da compiere, insoddisfazioni) e cercano il loro posto nel mondo, un luogo fisico e mentale in cui inseguire la felicità. Una ricerca che li rende errabondi e inquieti, come il lupo, che si sposta da una valle all’altra, inseguendo odori, il proprio istinto. Un vagabondare che man mano li porta a comprendere che ciò che cercano non sta tanto in luogo fisico, ma nella pace che devono conquistare dentro di sé.

Fausto ha bisogno di lasciarsi alle spalle tutto, la città con i suoi ritmi, la relazione con Veronica ormai prosciugata di senso, ma anche le sue velleità letterarie e la sua stessa idea di scrittore:

Fausto prese dalla mensola il libro che aveva pubblicato anni prima. Storie di coppie, perlopiù. Coppie che si stancavano, si tradivano, si lasciavano, o che restavano insieme per poi farsi ancora più male. Il tipo di storie che gli interessavano una volta, e che ormai gli parevano scritte da qualcun altro.

La felicità del lupo, pag. 16

La felicità del lupo parla di solitudine e racconta un mondo aspro come quello montano: il freddo invernale, il ghiaccio, i pericoli, le estati brevi. Difficoltà che chi ama la montagna mette nel conto perché sa quanto siano bilanciate da molti altri aspetti e quanto esse siano una specie di banco di prova che va a selezionare chi la può veramente abitare. E le persone che ci vivono si riconoscono a pelle tra di loro, è come se stringessero una specie di patto sottaciuto di mutuo soccorso, sostenuto da slanci generosi quando qualcuno è in difficoltà, rapporti in cui ci si capisce anche con poche parole o magari solo con degli sguardi.

Provo quel senso di respiro che ti può dare un paesaggio nuovo, e che da tanto tempo non provavo. Il paesaggio a cui sei abituata ti dà un senso diverso, di familiarità, o di oppressione a volte, ma poi in realtà non lo vedi neanche più, se non quando torni dopo essere stata lontana (..) eppure penso anche che solo chi si abitua vede davvero, perché ha sgomberato il suo sguardo da ogni sentimento. I sentimenti sono occhiali colorati, ingannano la vista.

La felicità del lupo, pag. 97

La felicità del lupo, ad una prima e superficiale lettura, può apparire come un breve romanzo che parla di montagna, di persone insoddisfatte, di cambiamenti. In effetti sì, parla di questo, ma si spinge oltre, va a scavare sotto la superficie per dire che per ogni nuova direzione da prendere, è necessario tornare indietro prima di andare avanti; avere la forza di recidere quello che non ci dà più felicità, lasciarsi alle spalle il passato e dirigersi verso il futuro. Possiamo scegliere di farlo, possiamo scegliere il cambiamento, cercare la felicità altrove, come fa il lupo.

Foto credits: https://www.outdoorpassion.it/news/la-popolazione-di-lupi-piemonte/

Lo stile di Cognetti anche in questo nuovo romanzo è elegante, apparentemente semplice e lineare, e senza retorica; anche nelle descrizioni dei paesaggi, della natura, non c’è sentimentalismo, piuttosto uno sguardo attento ai particolari e ai segnali che preannunciano il cambio delle stagioni, i passaggi di animali. i mestieri dei montanari. Insomma, la montagna è solo montagna, una realtà concreta, in mutamento, che sottostà a regole sue e che l’uomo può abitare con rispetto e amore, ma che non va idealizzata.

Cognetti non compone il sogno della vita semplice e della natura che salva. Certo, traspare chiaramente che i suoi personaggi si trovano più a loro agio in questo tipo di ambiente, che favorisce una sintonia e una pace capace di lasciare spazio al pensiero. I suoi personaggi vivono la montagna come un luogo in cui concedersi il tempo di pensare, nei modi e con i ritmi che ciascuno sceglie, perché la felicità è una conquista da fare prima di tutto dentro di sé.

Fontana Fredda era fatta in egual misura di realtà e desiderio (..) intorno la montagna esisteva, del tutto indifferente ai sogni di questi esseri umani, e sarebbe continuata a esistere al loro risveglio“.

Qui potete leggere l’incipit.

Paolo Cognetti è nato a Milano nel 1978. Tra i suoi libri: Sofia si veste sempre di nero (minimumfax 2012), Il ragazzo selvatico (Terre di mezzo 2013) e Senza mai arrivare in cima (Einaudi 2018 e 2019). Nel 2021 ha curato L’Antonia su Antonia Pozzi (Ponte alle Grazie). Sempre nel 2021 esce, sia come film-documentario sia in forma di podcast, Paolo Cognetti. Sogni di Grande Nord. Con Le otto montagne (Einaudi 2016 e 2018), che è stato tradotto in oltre 40 paesi e dal quale è stato tratto un film di prossima uscita, ha vinto il Premio Strega, il Prix Médicis étranger e il Grand Prize del Banff.