Un giorno un uomo che spesso si illudeva (ma non troppo) di poter scovare nei suoi simili e nella vita qualche motivo di novità, di imprevedibilità e addirittura di mistero come nei romanzi gialli, si trovò a colazione con un gruppetto di conoscenti in un bel terrazzo sul mare. La ragione delle sue speranze nasceva dal fatto che da più parti aveva sentito dire: la vita è sempre imprevedibile, talvolta romanzesca, mai noiosa. Convinzione che l’uomo sotto sotto non condivideva avendo vissuto sessant’anni di avvenimenti che, a partire dai venticinque-trenta, erano stati tutti previsti o quanto meno prevedibili.

Sillabari, Noia

Sillabari, di Goffredo Parise, Adelphi 2004, pagg. 360

Un giorno, sul finire degli anni Sessanta, Parise vede nella piazza sotto casa un bambino con in mano un sillabario. Gli si avvicina e legge: «L’erba è verde». Sono tempi politicizzati, in cui si fa spesso ricorso a parole «difficili», e quella pagina limpida e colorata acquista il significato di un monito, un richiamo all’essenzialità della vita e della poesia: «Gli uomini d’oggi secondo me hanno più bisogno di sentimenti che di ideologie». Nasce così l’idea di una serie di brevi racconti (o romanzi in miniatura o poesie in prosa, difficile dirlo), dedicati a sentimenti umani essenziali, che disposti in ordine alfabetico compongano una sorta di dizionario.

Basta leggere alcuni racconti a caso, soprattutto gli incipit, per rimanere abbagliati dalla perfezione dei particolari, dalla nitidezza e compiutezza che, nel breve spazio di poche parole, riescono a dare un’identità definita al personaggio. Personaggi umili, semplici, abituati alla fatica di vivere, talvolta rassegnati. Ancora di più colpiscono le frasi ellittiche che alludono, che lasciano intendere un significato, che portano il lettore là dove Parise vuole ma senza dire esplicitamente. Le descrizioni dei luoghi sono concise ma estremamente evocative, capaci con poche frasi, di ritrarre un ambiente nella sua specificità.

I primi, da Amore a Famiglia, escono sul «Corriere della Sera» fra il 1971 e il 1972, e a tutti è subito chiaro che mai la scrittura di Parise è stata così felice, quasi fosse scaturita da quella condizione di armonia, di energia che lo scrittore aveva sempre cercato: «una specie di limbo, di lieve e soffusa esaltazione, in cui nel suo complesso ti piace la vita e ne hai al tempo stesso nostalgia». Una seconda serie, da Felicità a Solitudine, esce fra il 1973 e il 1980, e nel 1984 i due Sillabari vengono riuniti in un unico volume. Rileggendoli a distanza di vent’anni, scopriamo, non senza stupore, che il tempo nulla ha tolto a quei racconti tenacemente controcorrente, frutto di una fulminante concentrazione, o meglio riduzione agli elementi primi, della realtà: ci appaiono nitidi, assoluti, chiusi in una nervosa, brusca perfezione come figure scontornate, eppure capaci di evocare, al pari di un sillabario, un intero mondo perduto. Come ha scritto Cesare Garboli, nei Sillabari Parise «distilla la pietra filosofale del raccontare. Ma non racconta, fa qualcosa di più. Invoglia a pensare che il mondo sia raccontabile, e che la sua raccontabilità sia una meraviglia da scrutare attraverso un foro minuscolo».

Personalmente, sono completamente conquistata dai suoi incipit, con quel che di favola, con quella capacità fotografica di mettere una scena davanti agli occhi del lettore… un vero maestro. Eccone alcuni:

Carezza”: “Una sera d’inverno del 1937 in una città italiana fredda e poco illuminata con molti portici e chiese sbarrate un uomo alto con un cappotto lungo e un cappello peloso dalle ali larghe che davano un che di sghimbescio alla sua ombra salì le scale di una casa umida, si avvicinò al buio a una porta e suonò un campanello dal trillo incerto” (p. 86)

Cinema”: “Una domenica di gennaio del 1942 una signorina di una certa età dai capelli crespi e rossicci raccolti a chignon decise di andare al cinema. Era stata pochissime volte nella sua vita e sempre per accompagnare i bambini ai cartoni animati (era governante in una casa molto signorile), salvo una volta, al film ‘Salvator Mundi’ che aveva visto insieme alla famiglia il giorno di Pasqua in un anno che non riusciva a ricordare. In casa il cinema non veniva considerato molto bene ma quella domenica la signorina aveva deciso di andarci da sola e di non dirlo a nessuno” (p. 95).

Nostalgia“: Un giorno di un’estate lontana una donna di circa quarant’anni dall’aspetto però fanciullesco e roseo, con occhi celestini (si dice sempre azzurri) e una carnagione come gonfia, preparò il suo animo a una gita, più che altro una passeggiata di cui ebbe nostalgia. (p. 265)

Dal punto di vista stilistico, ciò che colpisce è la capacità di costruire il racconto con una perfetta essenzialità: ogni frase, ogni parola è calibrata e centrata, niente di troppo e niente che manca. In quei brevi ritratti che costruisce, si trova tutto il mondo di quei protagonisti, colti con uno sguardo immanente che attraversa trasversalmente tutti i racconti, e che emerge già nelle prime righe, un taglio esistenziale; alcuni esempi:

Grazia”. Un giorno un uomo aveva appuntamento con una donna al caffè Florian, a Venezia, alle sette e mezzo di sera. Era l’inizio dell’estate, entrambi avevano un’età particolare, lui quaranta, lei trentacinque, in cui possono succedere molte cose nell’animo umano ma è meglio non succedano perchè è tardi ed è inutile illudersi di tornare ragazzi. Tuttavia i due, forse senza saperlo, avevano molta voglia di tornare ragazzi e accettarono quel loro piccolo flirt appena incominciato come un gioco ma, sotto sotto, con una certa speranza (p. 165).

Paura“: Una sera di nebbia e di sirene al Lido di Venezia una signora sola tornava a casa: aveva settant’anni, era vedova e nella sua vita aveva avuto poca compagnia salvo una serie di gatti siamesi una ventina d’anni prima, poi un bassotto che era morto prestissimo in seguito al suo troppo zelo nel nutrirlo (mangiava solo tagliatelle al burro e fegatini di pollo) e il marito. Ma anche quello era morto due anni prima e di lui restava soltanto il ricordo vago, come di un’ambra alta e un po’ curva con due baffetti che ora, a ricordarlo nella nebbia, si perdevano nella nebbia. Da poco aveva un canarino. (p. 298)

Anche gli explicit sono lapidari: li leggi e non puoi fare altro che pensare che non avrebbe potuto esserci una conclusione migliore.

Cuore”: Qualche volta l’uomo era inquieto ma non esprimeva a lei la sua inquietudine perché non avrebbe saputo come. Allora diceva, come tra sé: «Sei uguale, identica»; e lei rispondeva: «Anche tu». Ma l’uomo invece sapeva molto bene che tutto ciò che è umano passa e scompare e forse questa era la ragione della sua inquietudine. Si videro per quattro anni durante i quali sembrò loro di rimanere giovani e felici, poi, un bel giorno, lei non venne più ed egli non riuscì a sapere più nulla di lei (p. 103).

Bambino“: Posarono insieme con i «colombi» svolazzanti nelle mani: l’uomo un po’ accigliato per il sole negli occhi, come allora, il bambino con la piccola bocca, gli occhi celesti a mandorla ridenti come chi, senza saperlo, conosce degli uomini il destino. (p. 67)

Odio”: Caricò gli sci e partirono. Nessuno dell’albergo e delle sdraio si mosse, nemmeno il vigile, e la donna, dapprima a quattro zampe, poi barcollando, si rialzò in piedi, si riassettò, e lentamente, con un fazzoletto al naso, riprese la sua passeggiata (p. 278).

Giuseppe Montesano nella quarta di copertina della nuova edizione Adelphi (2004), scrive:

I suoi racconti sembrano prossimi alla Mitteleuropa di Peter Altenberg: nel sentimento che non scade nel sentimentalismo, nell’asciutta creaturalità, nella musica fintamente trasandata; ma può anche essere un seguace del Robert Walser dei racconti in forma di temi di scuola: meno follemente didascalico, più narrativo, più carnale; o può somigliare a uno scrittore americano alla Truman Capote: per lo sguardo acuto e quasi tattile che cala nel mondo dell’adolescenza, per la capacità di dare parole ai trasalimenti privi di parole del corpo.

Pier Paolo Pasolini, recensendo il primo volume dei “Sillabari” (1972), scriveva: “Questo senso concomitante del passare del tempo e della sua sostanziale immobilità… è tipico della poesia: non mi meraviglierei se Parise si presentasse ora addirittura come poeta in versi”. Sì, sarebbe successo. Poco prima di morire, dettando la fine della vita in tenere elegie.

La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l’amore.

Goffredo Parise,1982, nella “Avvertenza” a Sillabari