Con i termini Generazione Y o Millennials (attualmente la fascia di età più popolosa al mondo, circa il 23% del totale) si indica la generazione dei nati tra i primi anni ’80 e la metà degli anni ’90. Poiché i nati all’inizio degli anni ottanta sarebbero diventati maggiorenni a cavallo del III millennio, si è iniziato a parlare di “generazione del millennio”. Tra di loro ci sono i genitori della generazione Z.

Questa generazione è caratterizzata da un maggiore utilizzo e una maggiore familiarità con la comunicazione, i media e le tecnologie digitali; in molte parti del mondo, l’infanzia della generazione Y è stata segnata da un approccio educativo tecnologico e neoliberale, derivato dalle profonde trasformazioni degli anni sessanta. L’aumento delle tecnologie di comunicazione istantanea resa possibile attraverso l’uso di internet, come e-mail, SMS e messaggistica istantanea e i nuovi media utilizzati attraverso siti web come YouTube e siti di social networking come Facebook, MySpace e Twitter possono spiegare come la fama dei millennials sia orientata allo scambio e al commercio grazie ad una più facile comunicazione attraverso la tecnologia. I millennials sono anche la generazione che ha maggiormente utilizzato le app di incontri.

La generazione Y è però anche la prima ad affrontare la “Grande recessione” ovvero la crisi economica a cavallo tra il 2007 e il 2013; crisi che si è ripercossa negativamente sui livelli occupazionali dei giovani, causando un generale clima di sfiducia, di precarietà e di difficoltà a fare progetti per il futuro. Definiti bamboccioni, nullafacenti e ignoranti da una classe politica essa sì ignorante, i millennials sono la generazione più istruita della storia occidentale, esperti digitali e capaci di parlare almeno un’altra lingua straniera, se non due; che più ha dovuto dimostrare tenacia nel non farsi sopraffare da una contingenza storico-sociale quasi deprimente.

Negli ultimi decenni la fruizione della cultura si è aperta come un ventaglio e gli scaffali delle librerie offrono oggi voci e scritture molto diversi tra loro. Viviamo in un mondo ormai transnazionale, transcontinentale, multietnico e globalizzato, dove le identità con il trattino (hyphenated identity, nella definizione di Ali Rattansi) rappresentano l’ordinario. Il comune denominatore tra gli autori millennial, non va cercato nell’età anagrafica quanto nelle tematiche che affrontano attraverso la loro scrittura, le stesse che affrontano nel vissuto quotidiano. I personaggi sono spesso autoriferiti, comunicano quasi esclusivamente online, sono preoccupati dal cambiamento climatico, dalla precarietà diffusa, dalla guerra, dalla polarizzazione politica. Ciò che accomuna il romanzo millennial è che più prospettive, soprattutto femminili, non-bianche e queer, si confrontano su un mondo che sta collassando su se stesso.

L’ambito in cui sperimentano comportamenti diversi dal passato è quello delle relazioni sentimentali. I siti di dating sono spesso l’unico approccio praticato per “agganciare” il partner. Un comportamento diffuso è la prassi per uscire da una relazione. Si chiama ghosting, e chi lo pratica semplicemente sparisce, diventa un fantasma, e così si risparmia la parte tragica dei saluti: di punto in bianco si smette di rispondere ai messaggi, al telefono, alle mail. Una tattica d’urto, efficace quanto dolorosa per chi la subisce. Ma non è del tutto finita, perché può continuare con l’orbiting: cioè si danno segnali di ripresa del contatto, con qualche like sui social, un mostrare interesse senza però impegnarsi in un vero ritorno, più un modo per “segnare il territorio” che per riallacciare un rapporto. Con conseguenze ancora più dolorose per chi quell’incertezza la vive con fragilità emotiva. Tematiche, queste, che ritroviamo ampiamente nella letteratura millennial. Così come le questioni relative alla maternità, alla mercificazione del corpo femminile, all’identità.

In molte opere emerge l’ansia dettata dall’insicurezza economica e dalla crisi del mercato del lavoro; a ciò si associano gli stati di “workaholism” , cioè dipendenza dal lavoro, così come di “sindrome di burn-out” cioè lo stato di esaurimento sul piano emotivo, fisico e mentale dovuto allo stress e alle tecniche di controllo sempre più invasive. Tutta questa precarietà e gli stati d’animo che genera si riflettono nelle relazioni sentimentali, anch’esse minacciate da una costante instabilità.

La letteratura popolare della generazione Y ha una stella nel suo firmamento e si chiama Harry Potter. Chi tra il ’97 e il ’98 (anno in cui Salani ha pubblicato il primo titolo, in italiano, Harry Potter e la Pietra Filosofale) aveva aveva circa dieci anni, ha vissuto un’avventura letteraria che non lo ha più abbandonato, avventura che si è allungata anche sulla generazione successiva.  manga e i romanzi grafici sono emersi come una forma popolare di letteratura largamente frequentata.

Dopo 4 album e un romanzo, il gruppo musicale bolognese Lo stato sociale ha debuttato nel mondo del fumetto con Andrea, realizzato con il disegnatore Luca Genovese e pubblicato da Feltrinelli Comics. Alberto Guidetti, membro della band che ha curato i testi della graphic novel, ritrae un’intera generazione abbandonata a se stessa, quella dei millennials, costretta ad affrontare una realtà in cui la guida della generazione precedente risulta inefficiente: ne emerge emblematicamente l’inevitabile incomunicabilità tra chi ha potuto vivere guardando con fiducia al futuro e chi invece deve faticare per restare aggrappato ad un presente precario.

Vediamo quali sono le autrici e gli autori che hanno raccontato questa generazione.

Una delle più lette e apprezzate tanto da diventare un termine di paragone, un canone, è Sally Rooney, la scrittrice irlandese che ha debuttato nel 2018 con il romanzo cult Parlarne tra amici, a cui poi è seguito Persone normali (entrambi Einaudi, traduzione di Maurizia Balmelli).

Parlarne tra amici si può leggere come una commedia romantica o si può leggere come un testo femminista. Si può leggere come un libro sul tradimento e l’infedeltà ai tempi di WhatsApp o su ciò che nei rapporti di coppia non cambia mai. Ma in qualsiasi modo si decida di leggerlo, Parlarne tra amici è un romanzo indimenticabile e universale sulle strade che l’amore sa aprire nel cuore degli esseri umani.

Persone normali è la storia di Marianne e di Connell, di due ragazzi che si incontrano al liceo e simili a due pianticelle condividono lo stesso pezzo di terra, crescendo l’una vicino all’altra, contorcendosi per farsi spazio, a volte sostenendosi a vicenda, altre togliendosi il respiro. È la storia di un amore giovane che pare destinato a non compiersi mai, di due anime che si inseguono e si sfiorano per anni, ma è anche una tagliente riflessione sulla prevaricazione e la tenerezza in questo nostro tempo strano.

Sally Rooney è riuscita nell’impresa piú difficile di tutte: scrivere un romanzo sulla banale e feroce dolcezza di una relazione. Riuscendo a cogliere quell’attimo infinito in cui si trova il coraggio di perdersi negli occhi di un’altra persona per ritrovare se stessi.

Brillante, ispirato, poetico, Acqua salata esplora la complessità dei desideri, la voglia di affermarsi e l’impossibilità di farlo rinunciando alle proprie radici; è il diario intimo e sincero di una giovane donna che si è persa inseguendo i sogni degli altri e che decide di fermarsi a recuperare i propri, cercando in se stessa la forza di ricominciare, senza rimpianti.

La vita di Lucy è cambiata molte volte: con le sfuriate e le assenze del padre alcolizzato, con l’ansia e la pena per il fratello sordo, con la bellezza dei viaggi in Irlanda a casa del nonno. E sembra cambiare definitivamente quando si trasferisce a Londra, per studiare e per vivere lontana dalla provincia, libera da ogni legame. Ma appena laureata, Lucy volta le spalle a tutto: va in Irlanda, nel Donegal, nella vecchia casa che il nonno le ha lasciato. Si affida al cielo, al vento, al mare per ritrovare se stessa, e intanto la sua memoria si snoda in racconti brevi e impetuosi come corsi d’acqua. Rivive l’infanzia, il rapporto profondo che la unisce alla madre, gli amori sbadati, le grandi, fameliche ambizioni della giovinezza. Nella sua corsa verso l’età adulta Lucy ha scoperto ciò che non vuole essere. E sceglie di ricostruirsi altrove, su fondamenta fatte di ricordi.

Quando lei, giovane e travolta dalla Dublino notturna, incontra lui, Ciaran, bello e risoluto, succede qualcosa di semplice e straordinario: l’attrazione rompe gli argini, si mescola alle fragilità e alle paure, diventa il significato stesso del vivere. Nasce così una relazione che per la protagonista è un alternarsi di estasi e sofferenza, di gelosia sfrenata unita a un piacere così intenso e bruciante da creare dipendenza: lei vuole annullarsi nel corpo di lui, dissolversi nei desideri fino a non lasciare più spazio alla propria identità. Mentre Ciaran, uomo emotivamente incapace e ferito, non trattiene i propri atteggiamenti malsani e crudeli. Fino all’epilogo, distruttivo e liberatorio, che apre la strada a una fuga e una rinascita. Megan Nolan racconta una storia di anti-amore, interrogandosi su cosa significa vivere in funzione del desiderio altrui, della volontà di essere amate a tutti i costi, rinunciando a ogni filtro che non sia lo sguardo dell’altro.

Giorgia incontra Filippo a una festa di laurea: lui si innamora della sua fragilità, lei si sente rassicurata dalla normalità di quel ragazzo laureato in Lettere, che ha dovuto rinunciare al giornalismo per dedicarsi al bar dei genitori. Come molti coetanei, la loro vita di coppia si scontra con ambizioni negate e costanti problemi economici, così Giorgia non riesce più a trattenere la sua inquietudine, che esplode quando ritrova per caso Mauro, il suo vecchio maestro di teatro. La recitazione era già stata per lei l’ancora di salvezza nei momenti più bui del suo passato, e il palco ora sembra finalmente riaccenderla. Ma incendiare un’anima irrequieta può diventare un esercizio rischioso se l’attrice protagonista perde di vista il confine tra realtà e finzione. Filippo e Mauro si troveranno complici e avversari al tempo stesso, sedotti da un gioco pericoloso per riconquistare Giorgia: scrivere il copione per la sua vita perfetta.

Tutti vorrebbero la vita di Anna e Tom. Un lavoro creativo senza troppi vincoli; un appartamento a Berlino luminoso e pieno di piante; una passione per il cibo e la politica progressista; una relazione aperta alla sperimentazione sessuale, alle serate che finiscono la mattina tardi. Una quotidianità limpida e seducente come una timeline di fotografie scattate con cura. Ma fuori campo cresce un’insoddisfazione profonda quanto difficile da mettere a fuoco. Il lavoro diventa ripetitivo. Gli amici tornano in patria. Il tentativo di impegno politico si spegne in uno slancio generico. Gli anni passano. E in quella vita così simile a un’immagine – perfetta nel colore e nella composizione, ma piatta, limitata – Anna e Tom si sentono in trappola, tormentati dal bisogno di trovare qualcosa di più vero. Ma esiste? Vincenzo Latronico torna alla narrativa con una storia lucida e amara di sogni e disillusioni, una parabola sulle nostre vite assediate dalle immagini dei social media e sulla ricerca di un’autenticità sempre più fragile e rara.

Non è questo che sognavo da bambina – 2021 – è un libro scritto a quattro mani dalle autrici esordienti Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio che ci offrono il più compiuto ritratto di cosa significhi affacciarsi al mondo del lavoro al giorno d’oggi. Le protagoniste del romanzo sono neolaureate, fuorisede, precarie: un’etichetta che potrebbe applicarsi a migliaia di giovani che oggi si trovano a che fare con stage sottopagati e lavori frustranti.
La trama vede al centro la storia dello stage della protagonista, Ida, in una grande agenzia di comunicazione milanese. Si racconta cosa significa diventare adulti oggi: le relazioni finite ancora prima di cominciare, il senso di impotenza di fronte a un sistema lavorativo precario e ingiusto, la frustrazione di vivere in una città difficile come lo è una grande metropoli.

Nella vita Maribel ha preso molte decisioni sbagliate e pochissime buone. Ma ora sente che le cose stanno per cambiare. Ha appena accettato un dottorato a Lille, in Francia. In fondo, nulla la trattiene a Madrid, così parte, piena di speranza: è giovane, e ha tutte le carte in regola per essere felice. Non fa altro che sentirselo ripetere. L’emozione di un nuovo paese, di una nuova lingua, di nuove persone da conoscere all’inizio la travolge. Ora Maribel riesce a vederle, le mille possibilità che ha davanti. Ma l’incantesimo presto si spegne. Intorno, tutto sembra vorticare a gran velocità e lei non riesce a stare al passo. Tutti perseguono il proprio obiettivo senza tentennamenti, come la sua coinquilina Paula o il suo amico Alessio. Lei, invece, trascina le sue giornate lavorando in un bar e facendo finta di scrivere una tesi di cui non importa a nessuno, forse nemmeno a lei. Per non parlare del bel Guillaume che un giorno appare e quello dopo scompare. Maribel si sente di nuovo al punto di partenza. Come se l’incertezza non derivasse dal luogo in cui si trova o da chi frequenta, ma risiedesse dentro di lei. Fino a quando scopre che anche i suoi amici in realtà non hanno idea di dove stanno andando. Perché essere giovani è una fortuna ma è anche una grande sfida: il mondo ti disegna in un modo e tu non sai ancora chi vuoi diventare. Maribel vuole capire chi è veramente, senza condizionamenti. Vuole un lavoro, ma solo se migliora la sua vita. Vuole amare, ma solo se può farlo con passione. Vuole dare un senso a una realtà che sembra averlo perso molto tempo prima. Perché sarà pure disorientata, ma ha tanta voglia di vivere.

Irene Graziosi racconta il mondo 2.0 della rete, dei social, degli influencer, una realtà complessa e per molti versi spietata che rischia di franare sul cosiddetto mondo reale (le vite private, il lavoro, i sentimenti, la percezione del presente, l’azzeramento del futuro) in modo devastante.

Dopo la morte della sorella, Maia ha interrotto gli studi a Parigi e si è trasferita con il suo compagno a Milano, dove non combina nulla. Gloria, invece, è un’influencer e a soli diciotto anni ha tutto quello che si può sognare. È quando Maia inizia a lavorare per Gloria che le loro vite cambiano per sempre. Le due ragazze intessono una relazione intensa e complicata che si dipana dietro le quinte del mondo virtuale a cui Gloria appartiene e che consente a entrambe, per la prima volta, di vedersi per ciò che sono realmente. È grazie a questo gioco di specchi che elaboreranno il senso profondo e oscuro del proprio passato e la natura dei desideri che le abitano, finché non saranno più in grado di distinguere ciò che è dell’una da ciò che è dell’altra. Sullo sfondo di questa amicizia, il contratto che tutti abbiamo sottoscritto con i social network, distorcendoci al punto da perdere la via per tornare a casa.

Nella valle dove vive, la questione più che altro è che Gaia si annoia. Nel suo presente immobile si affacciano nonno-di-giù, vedovo di successo in un programma tv del pomeriggio, nonna-di-su, che ha chiesto a santa Rita da Cascia di proteggerla, la madre, che ha divorziato per eccesso di traslochi e il padre, che ha tracce di polmoni nella nicotina e un’irrefrenabile voglia di ridere. Mancano diciannove giorni a Natale, venticinque a Capodanno, qualcosa di più all’ultimo esame. Dato che si annoia e non ha abbastanza soldi per fare il giro del globo in orizzontale e tagliarlo in due, così magari si apre e dentro ci trova ciò che le manca, si trasferisce prima a Mestre e poi nella laguna più bella del mondo. Solo che neanche lì c’è quello che cerca, il lavoro è sempre un “lavoretto”, il padre si ammala, i nonni invecchiano e Venezia non è che il fondale di cartone per i selfie dei turisti. Con un tono brillante e una lingua che richiama le favole, nel suo romanzo di esordio Ginevra Lamberti racconta una generazione che cerca di inventarsi un futuro lontano (il più possibile) dal presente e finisce per scoprirlo come il premio di una caccia al tesoro.

Cosa succede, nella Silicon Valley? Per quale ragione gli spazi di lavoro sono disegnati come appartamenti, e gli appartamenti come spazi di lavoro? In base a quale idea del mondo anche chi hai seduto di fronte comunica con te solo via messaggio? Come mai gli unici scambi diretti fra umani ruotano intorno alle ordinazioni del delivery successivo? E soprattutto, oltre a imporre una vita quotidiana così diversa da tutte le altre, cosa fanno veramente le startup?
Accumulano quantità inimmaginabili di dati su ciascuno di noi, e li organizzano secondo strategie sempre più veloci e sofisticate, ma perché? Per vendere, d’accordo. Per sorvegliare, come no. Ma poi?
Su domande come queste speculiamo ogni giorno, senza peraltro neppure sapere bene come sia fatta, Silicon Valley, e cosa sia. Anna Wiener ci ha lavorato per cinque anni, e quando ne è uscita ha deciso di scrivere questo straordinario rapporto, che ha assunto quasi da solo la forma di un romanzo.

Targhetta si cimenta nell’impresa ambiziosissima di ritrarre il nostro presente in continuo divenire, attraverso lo sguardo di un gruppo di trentacinquenni che – con un piede intrappolato nel mondo del web e uno ben piantato nei sobborghi in cemento di quello reale – cercano timidamente di costruirsi un futuro. Per mezzo di una prosa esatta e al tempo stesso intima, crepuscolare, questo romanzo si interroga su cosa stiano diventando le nostre vite, deviate e attratte ogni giorno da mille potenzialità, e su cosa potremmo diventare noi, chiamati insieme al dovere di essere felici e a quello di accelerare sempre di più la velocità del mondo.

Aurélie ha vent’anni. È francese, viene dalla provincia, da una famiglia operaia che ha condotto una vita di sacrifici per consentire ai figli di studiare e di fare uno scatto sociale. Alejandro ha la sua stessa età. È colombiano, nel suo paese era agiato e credeva che in Europa avrebbe avuto un grande avvenire. Arriva in Francia per studiare; qui, però, resta un immigrato: qualsiasi cosa faccia, qualsiasi cosa dica, sembra che le sue origini non possano mai essere messe da parte. Con il loro carico di frustrazione, solitudine e il bisogno di guadagnarsi da vivere con lavori precari, i due si incontrano e si innamorano: è una storia d’amore che travolge Aurélie e sorprende Alejandro, allentando almeno per un po’ la morsa della delusione nei confronti del futuro e quel senso di estraneità dal resto del mondo che li percorre in modo così diverso. Ma presto neanche la passione basta più: servirebbero sicurezze economiche e lavorative, progetti, un’accettazione sociale che, prima a Grenoble e poi a Parigi, sembra impossibile per entrambi. Il romanzo d’esordio di Marion Messina è un racconto lucido e inesorabile delle difficoltà del mondo d’oggi per chi ha vent’anni, quando tutti ti dicono che hai il futuro davanti, ma ti ritrovi incagliato in un infinito susseguirsi di false partenze.

Alix è una donna e una madre di successo. Tutto, intorno a lei, è perfetto. Nel suo blog dispensa consigli su come realizzarsi ed essere felici, ma soprattutto esorta le persone a confidare nell’importanza delle buone azioni. Nell’importanza di aiutare chi è meno fortunato. Lei, che è una privilegiata, non crede nei privilegi e nei preconcetti. Per questo affida la figlia a Emira, una giovane donna di colore, anche se nella sua cerchia di conoscenti una scelta del genere potrebbe rappresentare un problema. Ma un giorno, al supermercato, Emira viene accusata di aver rapito la bambina: non può certo essere la baby-sitter di una famiglia così perbene. Nessuno le crede, tutti si limitano a giudicarla in base al colore della pelle. In risposta a quest’ingiustizia, Alix decide di accrescere il proprio impegno: tesse le lodi di Emira ogni volta che ne ha l’occasione, le offre un contratto a lungo termine e si scaglia contro tutti coloro che l’hanno ritenuta colpevole senza appello. Inizia una lotta contro i pregiudizi. Una lotta un po’ troppo appariscente. Forse Alix ha qualcosa da nascondere. Forse teme che il velo di ipocrisia di cui per anni si è fatta schermo scivoli via e metta a nudo la verità. Perché le buone azioni non sempre sono spontanee. A volte dissimulano segreti e false intenzioni. A volte dietro il bene può celarsi il male.

Emma De Tessent. Eterna stagista, trentenne, carina, di buona famiglia, brillante negli studi, salda nei valori (quasi sempre). Residenza: Roma. Per il momento – ma solo per il momento – insieme alla madre. Sogni proibiti: il villino con il glicine dove si rifugia quando si sente giù. Un uomo che probabilmente esiste solo nei romanzi regency di cui va matta. Un contratto a tempo indeterminato. A salvarla dallo stereotipo dell’odierna zitella, solo l’allergia ai gatti. Il giorno in cui la società di produzione cinematografica per cui lavora non le rinnova il contratto, Emma si sente davvero come una delle eroine romantiche dei suoi romanzi: sola, a lottare contro la sorte avversa e la fine del mondo. Avvilita e depressa, dopo una serie di colloqui di lavoro fallimentari trova rifugio in un negozio di vestiti per bambini, dove viene presa come assistente. E così tutto cambia. Ma proprio quando si convince che la tempesta si sia finalmente allontanata, il passato torna a bussare alla sua porta: il mondo del cinema rivuole lei, la tenace stagista. Deve tornare a inseguire il suo sogno oppure restare dov’è?

Due sorelle, una madre che se ne va. Lisa Ginzburg scava nella fragilità della coppia, tra i calcinacci della famiglia, raccontando con abilità estrosa la fatica femminile di crescere proteggendo e proteggendosi. 

Maddalena, la maggiore, è timida, sobria, riservata. Nina, di poco minore, è bella e capricciosa, magnetica, difficile, prigioniera del proprio egocentrismo. Le due sorelle, legate dal filo di un’intima indistinzione, hanno costruito la loro infanzia e adolescenza intorno a un grande vuoto, un’assenza difficile da accettare. Ancora adesso, molti anni dopo, cercano di colmarla con corse, lunghe camminate, cascate di parole e messaggi WhatsApp che, da Parigi a New York, le riportano sempre a Roma, in una casa con terrazzo affacciata su Villa Pamphili, dove la loro strana vita, simbiotica e selvatica, ha preso forma. È proprio a Roma che Maddi, da sempre chiusa nel suo carapace, decide di tornare, fuggendo dai ruoli che la sorella, prima, e la famiglia poi, le hanno imposto. Finalmente sola con sé stessa e con i suoi ricordi, lascia cadere le difese e, rivivendo i luoghi del passato, inverte le parti e si apre alle sorprese che riserva la vita. Padri e madri, amicizie e passioni, alberi e fiumi fanno da cornice a una storia d’amore e di abbandono che, come ogni storia viva, offre solo domande senza risposta. E misura con il metro felice della letteratura la distanza che intercorre tra la ferita originaria e la pace sempre e solo sfiorata della maturità.

Con un approccio inedito e un linguaggio fresco e «social», Nadeesha Uyangoda apre in questo libro, che incrocia saggio e memoir, un’onesta conversazione per comprendere meglio la dinamica razziale nel nostro paese. La razza è un concetto difficile da cogliere, pur non avendo fondamenti biologici produce grossi effetti nei rapporti sociali, professionali e sentimentali. La razza in Italia non si palesa fino a quando tu non sei l’unica persona nera in una stanza di bianchi. E quell’unica persona è Bellamy, Mike, Blessy, David… una moltitudine in parte sommersa, sotterranea. Quell’unica persona è chi si è sentito dire troppe volte che «gli italiani neri non esistono»: lo gridano negli stadi, lo dice certa politica, sembrano confermarlo le serie tv, la letteratura, i media. In un certo senso è persino vero: gli italiani neri non emergono, non si vedono negli ambienti della cultura, nei talk show e nelle liste elettorali. O meglio, in quei luoghi esistono ma solo come oggetto del discorso, quasi mai come soggetto. La loro presenza è ridotta alla riforma della cittadinanza, ai casi di razzismo, all’«immigrazione fuori controllo», ai barconi, all’«integrazione».

Queenie è l’unica ragazza di colore in un giornale londinese zeppo di gente con la puzza sotto il naso. Cosí, quando il fidanzato bianco la scarica in malo modo, la sua autostima già precaria tracolla del tutto. Per capire che senso dare alla propria vita, dovrà infilarsi in una sfilza di guai e in una relazione piú sballata dell’altra. Ma alla fine, tra gruppi WhatsApp di sole donne, liste di irrealizzabili buoni propositi e illuminanti sedute di psicanalisi, persino lei, incasinatissima, esuberante e irresistibile, riuscirà a farcela.

La distanza tra la Nigeria e gli Stati Uniti è enorme, e non solo in termini di chilometri. Partire alla volta di un mondo nuovo abbandonando la propria vita è difficile, anche se quel mondo ha i tratti di un paradiso. Arrivata in America, Ifemelu deve imparare un’altra volta a parlare e comportarsi. Diverso è l’accento, ma anche il significato delle parole. La nuova realtà, inclemente e fatta di conti da pagare, impone scelte estreme. A complicare tutto c’è la questione della pelle. Ifemelu non aveva mai saputo di essere nera: lo scopre negli Stati Uniti, dove la società sembra stratificata in base al colore. Esasperata, Ifemelu decide di dare voce al proprio scontento dalle pagine di un blog. I suoi post si conquistano velocemente un folto pubblico di lettori, che cresce fino ad aprire a Ifemelu imprevisti e fortunati sbocchi sul piano professionale e privato. Ma tra le pieghe del successo e di una relazione con tutte le carte in regola si fa strada un’insoddisfazione strisciante. Ifemelu si sente estranea alla sua stessa vita e, lì dov’è, non riesce ad affondare le radici, pur sapendo che in Nigeria il nuovo modo di guardare il mondo le guadagnerebbero l’epiteto di “Americanah”.

L’esperimento di “ibernazione” narcotica di una giovane donna, aiutata e incoraggiata da una delle peggiori psichiatre della storia. New York, all’alba del nuovo millennio. La protagonista gode di molti privilegi, almeno in apparenza. È giovane, magra, carina, da poco laureata alla Columbia e vive, grazie a un’eredità, in un appartamento nell’Upper East Side di Manhattan. Ma c’è qualcosa che le manca, c’è un vuoto nella sua vita che non è semplicemente legato alla prematura perdita dei genitori o al modo in cui la tratta il fidanzato che lavora a Wall Street. Afflitta, decide di lasciare il lavoro in una galleria d’arte e di imbottirsi di farmaci per riposare il più possibile. Si convince che la soluzione sia dormire un anno di fila per non provare alcun sentimento e forse guarire. Tra flashback di film anni ’80, dialoghi surreali e spassosi, descrizioni di una New York patetica e scintillante, il libro ci spinge a chiederci se davvero si può sfuggire al dolore, mettendo a nudo il lato più oscuro e incomprensibile dell’umanità.

Bene, per ora è tutto; fatemi sapere se avete un romanzo preferito tra questi o un altro che mi è sfuggito..