Arriva un giorno in cui uno, per quanto limitato sia, inizia a capire certe cose. A me è successo a metà dell’adolescenza, forse un po’ più tardi, perché sono stato un ragazzo dallo sviluppo lento e, secondo Amalia, incompleto. Alla meraviglia iniziale è seguita la delusione e poi è stato tutto un trascinarsi sul suolo della vita. Ci sono stati periodi in cui mi identificavo con le lumache. Non lo dico per la loro bruttezza e vischiosità, né perché oggi per me è una giornata storta, ma per il modo in cui queste bestie si muovono e per l’esistenza che conducono, dominata dalla lentezza e dalla monotonia. Non durerò molto. Un anno. Perché un anno? Non ne ho idea. Ma quello è il mio limite ultimo. Di solito Amalia, all’apogeo del suo odio, mi rimproverava per il fatto che non sono mai maturato. Le donne possedute dal rancore vomitano spesso questo tipo di improperi. Anche mia madre odiava mio padre e questo lo capisco. Anche lui odiava sé stesso, da lì la sua propensione alla violenza. Che esempio hanno dato a mio fratello e me! Ci educano uno schifo, ci spezzano dentro e poi si aspettano che siamo onesti, grati, affettuosi, e che facciamo fortuna nella vita. Non mi piace la vita. La vita sarà pure tanto bella come afferma qualche cantante e poeta, ma a me non piace. Che nessuno mi venga a tessere lodi al cielo del tramonto, alla musica o alle strisce delle tigri. Al diavolo tutti quegli ornamenti. Per me la vita è un’invenzione perversa, mal concepita e peggio realizzata. Mi piacerebbe che Dio esistesse per chiedergliene conto. Per dirgli in faccia quello che è: un pasticcione. Dio dev’essere un vecchio libidinoso che dall’alto dei cieli osserva come le specie si accoppiano e rivaleggiano e si divorano le une con le altre. L’unica scusa di Dio è che non esiste. E con tutto ciò gli nego l’assoluzione.
Fernando Aramburu