INCIPIT
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«Comincia dall’inizio» ribadì lei, e se avessi potuto fumare mi sarei accesa una sigaretta. Non sono mai stata brava a raccontare, e questa storia mi era sempre sembrata appartenere a un’altra persona. Ero giovane e stupida. Ero un’idealista. Avevo vent’anni. Forse potevo cominciare dalla prima diapositiva del corso di storia dell’arte, una colonna di diorite nera. Il codice di Hammurabi: duecentottantadue leggi e punizioni assortite per la giustizia del diciottesimo secolo a.C., alcune all’apparenza logiche, occhio per occhio, la mano del chirurgo per un intervento andato male, la vita del costruttore per una casa crollata, altre più bizzarre – la colpa degli adulteri giudicata in base al fatto che annegassero o meno una volta buttati in acqua -, tutte incise su una stele alta poco più di due metri. Sulla fredda pietra nera, però, non c’era niente per me. Nessuna legge per celebrare un equo processo per gli eventi dell’anno passato. Non sapevo a chi tagliare la mano.
«Riproviamo. Quali sono state le sue prime parole? Cosa ti ha detto quando sei arrivata?»
Rimasi in silenzio, le braccia conserte strette strette, non capendo l’ostinato interesse di Frau Klein per l’inizio.
La Spa era per sole donne, tutte con disturbi diversi, e qualche malattia, di cui non sapevo quasi nulla. Loro, invece, sapevano perché ero lì. Ero famosa, e i sussurri impietosi di infermiere e pazienti mi seguivano ovunque nell’edificio di cemento. Eppure trovavo conforto nei loro tentativi di mascherare i commenti, sapendo fin troppo bene che fuori dalla Spa non c’era ragione di sussurrare. Quando ormai a Berlino era piena estate, noi – Hailey Mader e io, Zoe Beech – eravamo sulla bocca di tutti.
Grande e vecchia, la Spa si trovava in una scuola elementare ristrutturata nel nord del Brandeburgo. I corridoi sapevano ancora di gesso come l’interno di un mattone e quasi tutte le stanze, le aule di un tempo, erano doppie o triple. Io invece ero da sola in quello che immaginavo fosse stato un generoso ripostiglio, con una finestra quadrata, sedia e scrivania verniciate di blu e un lavandino di porcellana decorato da un festone di muffa marroncina. Mi piaceva pensare che quell’anello fosse una città di minuscole spore, ben amministrata, pieni di abitanti di muffa buoni e non violenti, magari anche di artisti di muffa e curatori di muffa che sniffavano coca in minuscoli locali di muffa.
Trascorrevo buona parte del tempo in queste vane fantasticherie, i gomiti premuti sul legno dolce della scrivania, lo sguardo fisso sull’insopportabile immobilità dei campi, e all’improvviso un flash interrompeva quello stato di apatia: un corpo fremente in un lago di sangue, lampeggianti, scariche di suoni come in un videoclip di Rihanna o nel trailer di un film horror. Spariva con la stessa velocità con cui era arrivato, e io tornavo di botto al campo spoglio, alla muffa del lavandino o alla costellazione dei nei sul collo di Frau Klein.
Calla Henkel