Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Il 29 giugno di 225 anni fa, nel 1798nasceva a Recanati il poeta, scrittore e filosofo Giacomo Leopardi, l’autore di alcune opere ottocentesche molto celebri come “L’Infinito”, “A Silvia” e “Il sabato del villaggio”, morto a soli 39 anni a Napoli nel 1837.

Leopardi compone L’Infinito probabilmente tra la primavera e l’autunno del 1819, ma pubblica la poesia per la prima volta solo nel 1825, quando appare sulla rivista milanese Il Nuovo Ricoglitore. L’infinito viene pubblicato nel volumetto Versi (1826) e poi nei Canti a partire dall’edizione del 1831, dove apre la sezione degli “idilli”.

Il termine “idillo” (diminutivo del termine greco εἶδος, che significa immagine), si può tradurre in “quadretto” e si ricollega alla tradizione bucolica iniziata da Teocrito nel IV-III secolo a.C., incentrata sulla descrizione spesso idealizzata della natura e della vita di campagna.

Definito da Leopardi stesso come uno degli “idilli esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo”, L’infinito parte di fatto dalla descrizione del paesaggio, del colle solitario e di quella siepe che impedisce di osservare l’orizzonte. Ma ben presto si allontana dagli elementi naturali per lasciare spazio a una profonda introspezione, a un viaggio nel pensiero del poeta che, grazie all’immaginazione, entra in contatto con l’infinito e da esso si lascia trasportare. L’infinito di Leopardi è composto da 15 endecasillabi sciolti, cioè non legati da rime. All’interno di questi versi il poeta affronta numerose sensazioni, percettive ed emotive

Il manoscritto originale dell’opera è conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli; un secondo manoscritto si trova nel Museo dei manoscritti del comune di Visso (Macerata).

La poesia è ambientata su un colle, nello specifico il Monte Tabor (che deve il suo nome all’omonima collina della Galilea), posizionato nei pressi di Palazzo Leopardi (la casa in cui è nato e vissuto il poeta, oggi visitabile) e del Centro Studi Leopardiani. Dalla sua sommità si può osservare tutto il paesaggio circostante, fino ai Monti Sibillini. Oggi il colle è divenuto un parco, e nel punto dove probabilmente Leopardi compose L’Infinito i visitatori possono leggere una targa che riporta il primo verso della poesia.

Parafrasi:

La poesia può essere scissa in due parti: nella prima ci vengono presentate la “collina solitaria” e la siepe, l’ostacolo visivo che impedisce di osservare “gran parte dell’estrema linea dell’orizzonte”. Questo impedimento porta il poeta a lasciare la dimensione della realtà per passare al piano dell’immaginazione, figurandosi “spazi sterminati, e silenzi non concepibili dalla mente umana, e una quiete profondissima” che quasi lo lasciano sbigottito. Nella seconda parte, Leopardi è riportato nel piano della realtà dal rumore del vento tra le fronde degli alberi, una percezione (questa volta acustica), che il poeta compara al silenzio sovraumano dell’infinito spaziale, giungendo con il pensiero a cogliere anche un infinito temporale, l’eternità, fatta dalle “epoche passate e ora scomparse” e del “tempo attuale, presente, vivente”.

Se fino a questo momento i due piani (quello della realtà e quello dell’infinito) erano stati ben distinti e separati dall’uso degli aggettivi dimostrativi “questo” (attribuito alla realtà vicina) e “quello” (attribuito all’infinito lontano), l’ultimo verso, tra i più famosi dell’intera storia della letteratura, recita: “Così tra questa immensità s’annega il pensier mio:/ e il naufragar m’è dolce in questo mare”. Al termine della lirica, quindi, il poeta si ritrova non solo più vicino all’infinito, ma vi si abbandona dolcemente.

Leopardi costruisce attentamente il suo componimento, con l’obiettivo di evocare la sensazione di vastità da lui vissuta: sul piano lessicale utilizza termini vaghi e indefiniti come “ultimo orizzonte” e “interminati spazi“, su quello sintattico fa prevalere il polisindeto e la coordinazione, dilatando il ritmo, e infine sul piano metrico fa frequente uso dell’enjambement, una figura retorica che, spezzando il verso, rende la poesia di più ampio respiro.