Vi propongo oggi la chiacchierata fatta con lo scrittore Giovanni Savelli in occasione dell’uscita del suo romanzo Jimmy Priscot, edito da Nutrimenti e di cui ho pubblicato pochi giorni fa la recensione.
L’intervista è divisa in due video.
Sotto trovate la sintesi scritta dell’intervista.
Jimmy Priscot mi ha riportato a quelle storie avventurose e alle loro atmosfere piene del fascino dell’ignoto; con echi di Salgari, Stevenson, Verne. Nel romanzo ci sono tutti gli ingredienti giusti – racconti di naufragi, un tesoro nascosto su un’isola misteriosa, un fiore con un occhio solo a dettare la rotta, una ciurma del tutto bizzarra – per dilettare chi ha spirito di avventura, con una vena umoristica e una scrittura più leggera e forse più vicina alla nostra sensibilità di oggi; un gergo marinaresco e piratesco, coniugato al passato remoto ma che occhieggia al futuro (e soggetto perfetto per una sceneggiatura cinematografica).
PB: Perché hai scelto questo genere? È uno dei tuoi preferiti? Sono queste le tue letture preferite?
GS: La fantasia che ho riversato in questo romanzo viene da letture di genere fantasy, come da La Spada di Shannara (titolo originale The Sword of Shannara; è un romanzo del 1977 dello scrittore statunitense Terry Brooks. In ordine cronologico di pubblicazione è il primo libro dell’opera fantasy legata al mondo di Shannara. Vi si narrano le avventure dei fratelli Shea e Flick Ohmsford durante la loro lotta contro il Signore degli Inganni che minaccia le Quattro Terre. NdR) e di fantascienza, oltreché di letture di genere marinaresco, Stevenson, Verne. Ho riscoperto il piacere della letteratura di genere come strumento per indagare il reale; la letteratura di genere offre strumenti e libertà.

Un’altra lettura che mi ha influenzato proviene da Ursula K. Le Guin, (è stata una scrittrice e glottoteta statunitense, autrice di fantascienza e di fantasy. NdR). Lei diceva che la fantascienza le consentiva di spaziare e di guardare il mondo da una prospettiva laterale, “fuori dalla scatola”, utilizzando il paradosso. E poi Saramago. La libertà narrativa.
PB: Hai un grande immaginario: come hai creato l’isola? Da dove ti è venuta l’idea dei fiori occhiuti e del fiore come bussola?
GS: Il processo creativo deriva da letture di genere ma anche da quelli che prima si chiamavano cartoni animanti, oggi anime, dunque dall’immaginario giapponese, che deriva dallo shintoismo, che ha una sua visione della natura. Nella mia ricerca, cercavo un modo per rendere originale elementi che erano già del genere, cercavo uno strumento che però fosse anche un personaggio; da lì l’idea del fiore, che è legato ad un anime che prima ancora era un manga: One Piece (One Piece è un manga scritto e disegnato da Eiichirō Oda, serializzato sulla rivista Weekly Shōnen Jump di Shūeisha dal 22 luglio 1997. La casa editrice ne raccoglie periodicamente i capitoli in volumi formato tankōbon. La storia segue le avventure del giovane pirata Monkey D. Rufy (il cui corpo ha assunto le proprietà della gomma dopo avere ingerito un frutto del diavolo, e della sua ciurma alla ricerca del tesore del Re dei pirati Gol D Roger: lo One Piece. NdR).
C’erano elementi naturali che diventavano personaggi loro stessi.
Dunque, tanti stimoli che hanno avuto una funzione di nutrimento, che poi sono rimasti a macerare e hanno poi dato i loro frutti nello sviluppo creativo.

PB: Il tuo romanzo è densamente popolato da personaggi unici, originali e molto rappresentativi. Nell’equipaggio ci sono i due gemelli giganti, che parlano una loro lingua, che si scopre derivare dall’est Europa. Poi il capitano Evans, il cartografo Magellano, la ragazzina Agata, la babushka, oltre ovviamente a Jimmy. Come sono nati? Hai proiettato qualcosa di te in loro? Rispecchiano altri personaggi letterari che hai incontrato nelle tue letture?
GS: Rileggendo la postfazione di un romanzo, Un oscuro scrutare di Philip Dick (romanzo di fantascienza, considerato uno dei più bei romanzi mai scritti sulla tossicodipendenza; dal romanzo è stato tratto un film con animazioni digitali. NdR); l’autore parlando del libro si riferisce a uno dei suoi personaggi in cui si ravvisano elementi suoi, della sua vita; Dick dice però io non sono nemmeno quello, sono il romanzo. Questa frase mi è rimasta in testa; io non credo di essere il romanzo, però mi ha fatto venire in mente che in psicologia, quando sogniamo, se compare una persona che ci parla, in realtà sono io che penso a quel dialogo, e allo stesso modo avviene con i personaggi del romanzo, credo di essere io dietro a loro. Li ho concepiti partendo da persone che conosco, anche da personaggi letterari o storici (vedi Magellano), incontri reali e incontri letterari, il tutto si incastra e da lì prende vita un personaggio.
PB: Leggendo la tua biografia ho letto che ti piace molto viaggiare, soprattutto nel sud-est asiatico. C’è qualcosa che ti sei portato da questi viaggi nel romanzo?
GS: Uno degli aspetti che trovo liberatorio dell’andare nel sud-est asiatico, soprattutto in aree più rurali, spostandomi via terra, è che nessuno parla la mia lingua, e quindi bisogna trovare un legame anche emotivo per comunicare, un diverso livello di comunicazione, io ad esempio porto delle foto del posto dove abito, mi piace mostrarle per fare capire da dove vengo, ecco quindi che il viaggio diventa scoperta.
Un altro elemento che mi sono portato nel romanzo sono le imbarcazioni, che sono diverse, sono studiate per una navigazione diversa rispetto alla nostra.
PB: I dialoghi hanno un ruolo importante nell’economia della narrazione; sono molto efficaci, focalizzati, botta e risposta incalzanti, venati di ironia, con una funzione nella storia. Come li hai costruiti?
GS: In effetti la storia è nata dai dialoghi. Ho immaginato persone che dialogavano, i luoghi in cui potevano avvenire, tipo una locanda fumosa in riva al mare.. Avevo una vaga idea iniziale del dove e del quando. Ad esempio il dialogo iniziale con un vecchio ubriacone del porto è uno dei primi che ho immaginato, poi l’ho collocato all’inizio. Nei dialoghi faccio rivelare ai personaggi qualcosa della storia. Credo che siano venuti in parte da quelle letture che ho fatto, da quelle atmosfere e suggestioni di cui mi sono nutrito; all’inizio erano scomposti poi hanno trovato la loro collocazione. Mi capita di ascoltare le persone che parlano e raccontano episodi di quello che gli accade, ecco lì ci sono le storie.
PB: Leggendo la tua biografia ho visto che hai frequentato la scuola Holden. Cosa ti ha dato questa esperienza? È stata utile per la scrittura, per focalizzare il tuo stile, utilizzarlo in modo più consapevole?
GS: Avevo bisogno di ancoraggio, avevo tante idee ma avevo anche bisogno di acquisire degli strumenti, sapere come utilizzarli; la scuola mi ha dato questo. La scrittura come lavoro artigianale.
Il primo anno ho seguito un corso con Marco Missiroli, il secondo con Davide Longo. La scuola mi ha fatto innanzitutto mettere i piedi per terra, rispetto alle velleità o all’idea che solo chi ha talento può scrivere. Loro non lavorano sul talento, si lavora sulla forma, sulla struttura. Mi hanno fatto rileggere romanzi con una nuova attenzione alla struttura, come un architetto che osservando un edificio ne coglie gli elementi strutturali. Sicuramente è un percorso che consiglio a chi vuole scrivere.
PB: Quali sono i tuoi progetti? Stai scrivendo un nuovo romanzo? Ci sarà un seguito di Jimmy Priscot o qualcosa di completamente diverso?
GS: Se c’è una cosa che ho imparato alla scuola Holden è lavorare sulla scaletta; ora sto lavorando su una scaletta. Vediamo cosa ne verrà fuori.
PB: Quali sono i tuoi interessi, ci sono cose che vorresti fare e non sei ancora riuscito a fare?
GS: C’è un sogno, mi piace salire a bordo di una astronave, un sogno che è legato alla fantascienza.


Splendida intervista.
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Grazie! Giovanni Savelli è uno scrittore davvero talentuoso e molto simpatico, è stato un grandissimo piacere conversare con lui.
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Grazie a te per la risposta! Colgo l’occasione per consigliarti questo film: https://wwayne.wordpress.com/2023/09/01/misteri-e-segreti-2/
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vado a vedere
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