Quaderno armeno, di Sara Maino, Nous editrice 2023, pp. 168
Il diario di viaggio di Sara Maino è il libro giusto per chi considera il viaggio in terre sconosciute come una grande opportunità per conoscere. Dunque non il viaggio prettamente turistico, il mordi e fuggi con cui a malapena ci si può fare un’idea di un luogo, di una cultura, ma un vero e proprio incontro, lontano dai luoghi comuni, dalle mete turistiche, dal pacchetto all inclusive.
Sara Maino parte con un’urgenza, cercare il sacro, e con un obiettivo: trovarlo nei canti liturgici armeni. Un viaggio di otto giorni che valgono come otto secoli, un peso specifico enorme in termini di esperienza e di contatto umano, oltreché culturale. Consapevole di addentrarsi in una terra dalle ferite ancora aperte – l’ombra del genocidio e della diaspora, i conflitti attuali, i rifugiati – una terra in cui fiorirono civiltà ricche di poesia, arte e musica, Sara Maino parte con poche certezze e tanta convinzione.
Compiendo questo viaggio, Sara Maino si allontana dalla comfort zone delle mete turistiche per intraprendere una di quelle esperienze che ti cambiano, dopo le quali una persona non sarà più la stessa, ma una nuova, arricchita da un bagaglio culturale ed emotivo senza uguali. Viaggiare alla scoperta dell’altro è anche viaggiare alla scoperta di se stessi in rapporto all’altro; è aprire mente e cuore e fare posto a qualcosa di diverso.
È il mese di maggio 2003, e a Malpensa fa molto caldo. Sulla carlinga dell’aereo, scritto a grossi caratteri blu, leggo il nome del compositore russo Modest Musorgskij, autore dei Quadri di un’esposizione. Mi solleva il pensiero di volare sulle ali di una sua opera. Per un viaggio come questo, mosso da intenti di natura musicale, non poteva crearsi migliore coincidenza.
Dopo una serie di preparativi per predisporre visti e contatti – tra cui un visto speciale della Santa Sede, la visita ad un Papàs della chiesa cattolica di rito greco-bizantino di Palermo che le raccomanda di richiedere l’intercessione del nunzio apostolico residente in Georgia – nonostante l’epidemia di Sars in oriente, la Seconda guerra del Golfo, in Iraq, Sara dopo alcuni rinvii, decide di partire senza visto per l’Armenia e solo con una lettera di presentazione del suo professore dell’università di Trento in cui si spiegano gli intenti della sua ricerca. Sperando che questo sia sufficiente a metterla nella condizione di concretizzare il suo progetto.
Sara Maino parte per l’Armenia con l’obiettivo di dedicarsi alla scoperta e alla raccolta delle musiche sacre della liturgia armena.

Sorvolando il monte Ararat – la montagna sacra ormai da tempo annessa al territorio turco – simbolo dell’identità armena, Sara non può che riflettere sulla ricchezza della tradizione orale armena, trasmessa col canto e con la musica:
il conoide innevato con l’immenso altipiano disteso ai suoi piedi. Su questa pianura, nei villaggi intorno all’Ararat, per secoli si sono intrecciati inni biblici, canti d’amore e di lavoro, poesie e filastrocche popolari, fondendosi in una partitura capace di toccare le radici più profonde dell’interiorità.
Ad attenderla all’aeroporto di Yerevan c’è Oxana, una signora armena di mezz’età che aveva conosciuto a casa di Luigi, l’amico appassionato di musica. Oxana, dispiaciuta, le comunica che non può ospitarla in casa sua, dove sta facendo dei lavori; salite su un taxi, la accompagna ad una specie di albergo:
un edificio grigio scuro, imponente, di quattro o cinque piani. È ancora buio ma riesco a intravedere l’insegna spenta sulla pensilina: Hotel Praha-Arabkir.
Il tassista aspetta fuori. Entro in una hall quasi buia con Oxana dietro. Un brivido mi corre lungo la schiena.
L’albergo è, a prima vista, di uno squallore imbarazzante. (..) La hall odora di una sporcizia incrostata. Cumuli di polvere negli angoli, l’ambiente è completamente spoglio. Sono stanca morta e sbigottita. Oxana lancia sguardi insicuri e agitati intorno, e mi osserva come se cercasse la mia approvazione. Mi dà quasi la sensazione di volersi levare un peso di dosso.
Nonostante l’aspetto respingente, visto il costo basso, Sara decide di fermarsi in quell’albergo, pensando che tanto si tratterà di una sistemazione provvisoria. Una signora l’accompagna in una camera deprimente e sporca ma, vinta dal sonno e dalla stanchezza, Sara sprofonda in un sonno letargico, che, poi scoprirà, in realtà essere durato solo tre ore. Al suo risveglio incontra alcune ospiti, soprattutto donne e ragazzine che la osservano curiose e ridenti; tra loro si fa largo Violet, una ragazza che le parla in inglese, e Sara si sente già meglio.
Violet vive in quell’albergo da dieci anni, insieme ad alcuni parenti; si sono sistemati come meglio hanno potuto. Sono tutti profughi del Nagorno-Karabakh, da cui sono fuggiti negli anni Novanta a causa del conflitto tra Armenia e Azerbaijan. L’Hotel Praha è un albergo di rifugiati dove è finita parte degli sfollati di Hadrut, una
città del Nagorno-Karabakh, e di Baku, la capitale azera. Lo Stato armeno li ha sistemati in quest’albergo e da allora vivono in cinque o sei persone per stanza. Per Sara è questo il primo contatto con Yerevan, un incontro che le presenta una realtà particolare: Violet, infatti, le spiega che per loro rifugiati è difficile essere assunti per lavorare, ci sono molti pregiudizi, nonostante siano anch’essi armeni. Vivono ai margini della società.
La prima uscita è insieme a Violet, che la porta dapprima al mercato, dove Sara rimane colpita dai frutti, dai colori, dai profumi, poi in un negozio di musica, dove Sara inizia subito a cercare dischi di musica sacra. Tornate all’albergo e appreso da Oxana che non potrà ospitarla per altri giorni – forse mai?, inizia a dubitare Sara -, la nostra viaggiatrice/ricercatrice si trova in un circolo soffocante di presenze che le fanno domande, che le intimano di non andare in giro da sola, che la mettono in guardia da pericoli. Quelle che inizialmente sembravano premure di cortesia, iniziano a profilarsi come un’ingerenza asfissiante. Finalmente uscite, Violet, che in realtà si chiama Manushak, accompagna Sara in giro per la città, mantenendo un atteggiamento un po’ aggressivo (o forse solo protettivo) quando Sara vuole fare di testa sua.
Attraverso i racconti di Violet/Manushak e degli altri ospiti, Sara viene a conoscenza delle difficoltà dei profughi che, pur essendo essi stessi armeni, si sentono come degli stranieri, e vengono emarginati dalla popolazione locale. La difficoltà di trovare lavoro, di potere avere una abitazione, di condurre una vita normale. Difficoltà che affrontano dandosi aiuto tra di loro, come una comunità coesa; Sara si lascia coinvolgere dal calore dei legami che tengono uniti il gruppo, al punto da acconsentire a fare da testimone ad un matrimonio.
La prerogativa degli abitanti dell’Hotel Praha è di condividere tutto quello che hanno con chi ne ha bisogno.
Sono io, ora, in questa condizione. Non capivo la lingua e ho ricevuto assistenza. Avevo fame e mi hanno sfamata. Sono stata accolta in una stanza, dove ho trovato una famiglia. Mi vergogno di aver raccontato a Manushak la mia storia di studentessa lavoratrice con poche risorse. In confronto a loro sono ricchissima. Ricordo i suoi occhi sgranati questa mattina, quando ho cambiato due pezzi da cinquanta euro.
Mentre vive questa esperienza, si attiva per concretizzare l’obiettivo del suo viaggio, grazie anche all’aiuto di Padre Hagop, che la mette in guardia rispetto all’ospitalità, secondo lui mossa da secondi fini, degli ospiti dell’Hotel Praha.
Assalita dai dubbi e schiacciata da un senso di oppressione, Sara si sente prigioniera della situazione e, dopo una notte insonne, decide di riprendere in mano la sua vita e la sua missione in Armenia. Ma, una volta affrancata dall’ingereza di Manushak, ne sente subito la mancanza. Che lo ammetta o no, Manushak è la chiave della sua visita, è una specie di guida che le fa aprire gli occhi su una realtà che, per essere compresa fino in fondo, va vista con gli occhi degli ultimi, e non solo nella splendente bellezza dei suoi monumenti e nella ricchezza della sua cultura.
Manushak è terra sconvolta, aperta in crateri. Dietro il suo viso pulito, timido e fresco c’è la tragedia. Manushak è rivelazione, scintilla. I nostri sentimenti si toccano, si uniscono, ed è questa luce che conta. Illumina zone di oscurità. (..) Manushak, sei lo specchio dell’anima semplice in cui potersi leggere, per porre domande e trovare forse lontane risposte.
Scintilla che riluce nel buio di Yerevan, cosa sono venuta
a fare in Armenia?
Quando finalmente Sara riesce a riprendere il filo del suo lavoro, ciò per cui ha fatto tanta strada, ci accompagna in un emozionante viaggio tra chiese e rituali, architetture e armonie, parole e musica, canti e liturgie, concedendo anche a noi lettori il piacere di entrare in contatto con questa realtà complessa, di grande bellezza, adagiata in una culla millenaria di contraddizioni e dolore, così come di rara elevazione spirituale.
E se il viaggio è conoscenza dell’altro e di se stessi, in questo diario di bordo ne troviamo piena conferma.
Alla mia domanda sul significato personale e universale del canto liturgico armeno aveva risposto che la
preghiera si esprime a parole, e la parola ha bisogno di uno spirito che la animi con il canto.
Dopo aver dato luogo alla diaspora – soprattutto la moderna diaspora, che ha avuto inizio dopo il genocidio armeno degli inizi del XX secolo, perpetrato da parte dell’Impero ottomano – gli armeni sono attualmente presenti con le loro comunità in diversi stati in tutto il mondo. Laddove sono espatriati sono riusciti a costituire delle comunità coese ed accoglienti, aperte anche agli stranieri, con cui amano condividere tradizioni, cibi, musica.
Il libro è edito da una piccola casa editrice siciliana, Nous, fondata a San Giovanni La Punta (Catania) da due amiche, Chiara Sicurella e Giuditta Busà, che puntano a proporre opere che sappiano leggere la realtà da una prospettiva nuova; è arricchito dall’introduzione di Pietro Kuciukian, Console onorario della Repubblica di Armenia.
Sara Maino si presenta:
Sono nata ad Arco in Trentino, parlo quattro lingue e sto imparando il russo. Vivo tra Belgio e Italia, studio Filosofia all’Università di Trento. In un connubio vitale tra arte e lavoro, mi esprimo in diversi ambiti artistici: poesia, performance, teatro, fotografia, musica, pittura, sound art, video d’arte, documentari. Mi sono specializzata nell’ideazione e nella conduzione di laboratori rivolti a scuole ed Enti, in Italia e all’estero, focalizzati sulla pratica del suono e dell’intervista narrativa come strumenti di stimolo creativo per consolidare relazioni di comunità, attraverso l’educazione a un ascolto consapevole. Ho collaborato a volumi di ricerca etnografica e di poesia, mie poesie e disegni sono pubblicati su antologie e riviste internazionali. Sono autrice di testi teatrali, programmi radiofonici e video per la Rai. Amo la geografia.

