Ripensavo a come noi cinque avessimo avuto una famiglia decisamente malata, ma mi rendevo anche conto di come le radici profonde di ciascuno fossero avvinghiate al cuore di tutti gli altri.
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Mi chiamo Lucy Barton, di Elizabeth Strout, Einaudi 2016, traduzione di Susanna Basso, pp. 163
Mi chiamo Lucy Barton è il quinto romanzo di Elizabeth Strout, pubblicato negli Stati Uniti il 12 gennaio 2016 presso Random House e subito divenuto un bestseller. Il libro racconta la complicata relazione fra Lucy – personaggio e io narrante – e sua madre. È stato inserito nella longlist del Man Booker Prize 2016.
Nel libro si intrecciano tre piani temporali diversi. Nel primo, Lucy è una donna di mezza età, divorziata, risposata, con figlie grandi, apprezzata scrittrice; nel secondo, che ha nel libro lo spazio più ampio, Lucy è la giovane madre di due bimbe, ricoverata in ospedale per alcune settimane, e riceve inaspettatamente la visita della madre che non vedeva da molti anni; infine nel tempo più lontano, Lucy vive un’infanzia molto ardua per l’estrema povertà e per le relazioni difficili nella famiglia, finché decide di andarsene e inizia a perseguire la sua vocazione di scrittrice.
Questo passato riemerge durante la visita della madre, attraverso un chiacchiericcio apparentemente insignificante, che riporta alla memoria di Lucy tanti aspetti del passato e le fa riscoprire il forte legame affettivo con la madre.
La narrazione è intimista ed evocativa, sfumata, e ha un andamento concentrico sull’asse temporale, tra il presente e il passato. L’azione è minima, se non nei frame che vengono descritti e che si aprono come finestre sul passato; è tutto sviluppato sui sentimenti, sulle emozioni, sui rapporti.
Da tre settimane costretta in ospedale per le complicazioni post-operatorie di una banale appendicite, proprio quando il senso di solitudine e isolamento si fanno insostenibili, Lucy vede comparire al suo capezzale il viso tanto noto quanto inaspettato della madre, che non incontra da anni.
Per arrivare da lei è partita dalla minuscola cittadina rurale di Amgash, nell’Illinois, e con il primo aereo della sua vita ha attraversato le mille miglia che la separano da New York. Alla donna basta sentire quel vezzeggiativo antico, “ciao, Bestiolina”, perché ogni tensione le si sciolga in petto. Non vuole altro che continuare ad ascoltare quella voce, timida ma inderogabile, e chiede alla madre di raccontare, una storia, qualunque storia. E lei, impettita sulla sedia rigida, senza mai dormire né allontanarsi, per cinque giorni racconta le vicende delle persone che abitano il loro paese: della spocchiosa Kathie Nicely e della sfortunata cugina Harriet, della bella Mississippi Mary, povera come un sorcio in sagrestia.
Un flusso di parole che placa e incanta, come una fiaba per bambini, come un pettegolezzo fra amiche. Lucy donna è adulta ormai, ha un marito e due figlie sue. Ma fra quelle lenzuola, accudita da un medico dolente e gentile, accarezzata dalla voce della madre, può tornare a osservare il suo passato dalla prospettiva protetta di un letto d’ospedale. Lì la parola rassicura perché avvolge e nasconde.
Fra i temi, spicca, oltre alla tematica familiare, l’opposizione tra l’oscuro paese del Midwest, dove Lucy è nata, e la ricca, animata, stimolante New York degli anni Ottanta, simboleggiata dal grattacielo Chrysler illuminato nella notte, resa cupa dal dilagare dell’Aids.
So che farò arrabbiare molti fan della Strout ma personalmente sono rimasta delusa. Certamente è un libro ben scritto, sapientemente costruito, ma da una vincitrice del Pulitzer mi aspettavo molto di più. Ho apprezzato lo stile scarno e scevro di inutili lungaggini, ma non mi ha emozionata né coinvolta. Proseguirò comunque la lettura degli altri romanzi del ciclo di Lucy Barton – che avevo scelto nell’ambito del mio articolo dedicato ai romanzi con protagonisti scrittori/scrittrici – magari rimarrò sorpresa.

Elizabeth Strout aprirà l’edizione 2024 del Salone Internazionale del Libro di Torino, ve ne ho parlato QUI.


Io sono una fan di Olive, ancora lei, l’ho trovato superiore a Olive Kitteridge, non ho letto niente di questa serie perché non mi ispirava (e anche tu mi confermi che i primi “episodi”… meh), ma ho sentito Sinibaldi parlare dell’ultimo, Lucy davanti al mare, e ora lo voglio leggere a tutti i costi e non so se andare in fila o fregarmene!
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Io non ho letto Olive (ne uno, né l’altro, ma rimedierò), ho iniziato con la serie di Lucy Barton, come dicevo nel post, per il filone scrittore/scrittrice protagonista del romanzo. Leggerò anche gli altri perché sono curiosa di capire se riuscirà a convincermi di più andando avanti…
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