Consueto appuntamento per rispolverare termini che non si usano molto e che dunque rischiano di perdersi.
Ecco le parole di oggi:

Protervia, /pro·tèr·via/: [dal lat. tardo protervia, der. di protervus «protervo»]. – Superbia audace e insolente, arroganza ostinata, sfrontata, petulante, spesso accompagnata a ira, a rancore, persino a ferocia. Alla superbia, la protervia aggiunge talora l’imperioso disprezzo di chi, mai dubitando delle proprie capacità, preferisce ostentare la sua superiorità anziché trattenerla in un altezzoso silenzio.
Dietro l’aggressività del protervo c’è la piena consapevolezza che ogni suo atto sia la manifestazione di una superiorità permanente, quella di chi ribadisce l’incolmabile distanza che lo separa dagli altri già prima di agire.

Dante usava spesso questo termine e la forma aggettivo; lo usa perfino per Beatrice. In Purg. XXX, 70 la donna gli si mostra «regalmente ne l’atto ancor proterva». Cosa ci vuol dire Dante a proposito della sua musa? Che appare perfettamente compresa di sé e del suo ruolo di guida salvifica: fiera, maestosa e severa, come l’ammiraglio cui Dante l’ha paragonata qualche verso prima (v. 58), quindi in una accezione più positiva dell’abituale uso del termine.

Sussiego, /sus·siè·go/: [dallo spagn. sosiego «calma; gravità contegnosa» (der. di sosegar «calmare»)]. Atteggiamento, contegno pieno di gravità un po’ altezzosa. Dunque un atteggiamento e un contegno sostenuto e serioso che lascia intravedere, dietro la gravità dei modi, dei gesti e delle parole, una componente di altezzosità e di boria confortata da un sentimento di supposta superiorità (di natali, di ceto, di ingegno, di istruzione e simili). Insomma, come direbbe mia figlia, uno che se la tira un casino.

Come ebbe a usare Dante, nel capitolo VII: «Il frate portinajo aperse, e accolse il nostro figliuol prodigo con quel maladetto misto di sussiego, di soddisfazione, di clemenza, di commiserazione e di mistero».

Che mi dite di queste due parole? Le usate? Le trovate nelle vostre letture o ascolti?