Amici di una vita, di Hisham Matar, Einaudi 2024, traduzione di Anna Nadotti, pp. 365
– Siamo in una marea, – mi aveva detto nei giorni appassionati della Primavera araba, cercando di convincermi a tornare a Bengasi con lui, – dentro una marea, noi stessi marea. Così sciocchi da pensare di essere liberi dalla storia, quasi si trattasse di gravità.
In Amici di una vita, Hisham Matar intreccia le storie di tre amici, segnati da un evento traumatico, per riflettere sulla fragilità dei legami umani e l’impatto della storia sulle nostre vite.
L’amicizia, la libertà, il cambiamento e la perdita sono i fili conduttori di un romanzo che, con un lirismo intenso, esplora il senso di appartenenza e le cicatrici lasciate dall’esilio. Matar, già Premio Pulitzer per la biografia con il memoir Il ritorno, ci trasporta questa volta nelle strade di Londra, dove il passato libico dei protagonisti si intreccia con la realtà della loro nuova patria.
In questo nuovo romanzo, Hisham Matar si allontana parzialmente dalle tematiche familiari (relative a suo padre, perseguitato dal regime) che hanno caratterizzato la sua produzione precedente. Pur rimanendo ancorato al contesto libico, l’autore ci presenta per la prima volta un protagonista, Khaled, che non è direttamente coinvolto nella lotta contro il regime di Gheddafi. Sebbene il padre di Khaled – preside presso una scuola superiore e storico – sia un oppositore silenzioso del regime, il giovane si trova a confrontarsi con le conseguenze politiche della dittatura in modo più indiretto, attraverso un gesto di ribellione impulsivo.
Il giovane Khaled ha vissuto la sua infanzia a Bengasi con la famiglia composta dai genitori e dalla sorella minore Souad; affascinato dalla letteratura, ambisce a recarsi nel Regno Unito per studiare. Grazie ad una borsa di studio, ha l’opportunità di frequentare l’università a Edimburgo, da dove il suo destino lo condurrà a Londra.
Il storia si sviluppa intorno ai destini dei tre protagonisti, Khaled, Mustafa e Hosam, e il punto da cui si dipana la trama è la sparatoria avvenuta presso l’ambasciata libica a Londra nel 1984, che provocò la morte di una poliziotta e il ferimento di altre 11 persone.
Lo stesso Matar ha raccontato la sua esperienza diretta con questo fatto:
Avevo 13 anni quando avvenne quello scontro a fuoco ed ero davanti alla televisione quando ne fu data notizia. Ne fui molto colpito e soprattutto ricordo che a terra c’era un uomo ferito, ancora con il passamontagna, che continuava a chiamare sua madre.
Diversi anni dopo l’autore si trasferisce a Londra per studiare; fa amicizia con un uomo molto più grande di lui. Tra loro si instaura subito un bellissimo rapporto. Un paio d’anni più tardi scoprirà trattarsi del ragazzo che chiamava la madre dopo essere stato colpito durante la sparatoria all’ambasciata.
Questo accadimento è stato presente nella mia vita per lungo tempo benché non abbia mai avuto alcuna intenzione di scriverci su nulla. L’unica cosa di cui ero certo era voler raccontare l’addio di questi due amici, addio che rappresenta anche l’inizio del romanzo, e quanto l’io narrante avesse sofferto per questo distacco.
Dal fatto reale alla finzione del romanzo. Khaled e il suo amico Mustafa rimangono feriti durante la sparatoria davanti all’ambasciata. A causa della gravità delle ferite, Khaled rimane diverse settimane in ospedale, sorvegliato dai servizi di Scotland Yard per evitare ritorsioni del regime libico.
L’asilo politico offerto dal governo inglese è un’ancora di salvezza, ma non cancella l’ombra del dubbio che aleggia su Khaled. Le immagini della protesta, i volti immortalati dagli obiettivi delle telecamere, lo perseguitano. E se, tra quelle facce, ci fosse stata la sua? E se le lunghe braccia del regime fossero riuscite a infiltrarsi anche nel suo ospedale, a carpire i suoi segreti? L’idea di essere un uomo segnato, braccato, lo terrorizza. Non sa se la sua famiglia sia al corrente di tutto ciò, se le sue lettere siano state intercettate, le sue chiamate ascoltate. Il silenzio, il totale riserbo, la finzione, sono l’unica strategia che può mettere in atto per proteggere se stesso e i suoi cari. Non può spiegare loro le ragioni della sua assenza, né condividere con loro la paura che lo attanaglia. La solitudine dell’esilio, unita al peso del segreto, consumano le sue giornate, lui che ha appena diciotto anni e che capisce che la sua vita ha subito un cambiamento irreversibile, una deviazione da cui, forse, non si tornerà indietro.
Non avrò mai le parole per spiegare cosa provi se ti sparano, se non puoi tornare a casa o devi rinunciare a tutto ciò che progettavi per la tua vita, o per spiegare la sensazione di essere morto quel giorno in St James’s Square e di essere rinato, per qualche grottesco accidente, nei panni infelici di un naufrago diciottenne, arenato in una città straniera dove non conosceva nessuno e non sapeva come cavarsela, riuscendo a stento a far passare le giornate.
Mentre Khaled, rimasto in esilio, lontano dalla sua terra d’origine, cercherà di dare un senso al suo passato, Mustafa e Hosam – perseguitato dal regime a causa dei suoi libri, e che si scoprirà anche lui partecipante alla protesta – si impegneranno in una lotta che li cambierà radicalmente e li porterà a confrontarsi con le proprie radici e con le proprie responsabilità. Le loro esperienze, raccontate attraverso un andirivieni di flashback e flashforward, si intrecciano in un affresco complesso e toccante della Libia e delle sue contraddizioni.
La Libia, con le sue rivolte e le sue rivoluzioni, fa da sfondo alla parte più intima e personale della storia, essendone causa e ragione. Khaled, Mustafa e Hosam, ognuno a suo modo, saranno coinvolti in eventi di portata mondiale, come la cattura e la morte di Gheddafi.
Nel labirinto esistenziale di Khaled, ogni passo è un’incerta ricerca di sé, di una identità sfuggente. L’esilio, scelta o imposizione, lo ha catapultato in un mondo estraneo, dove la nostalgia per la Libia si mescola alla paura di un futuro incerto. La ferita inferta dalla sparatoria, un marchio indelebile sulla sua anima, lo costringe a confrontarsi costantemente con le proprie paure e le proprie fragilità. Diviso tra passato e futuro, tra l’attaccamento alle proprie radici e il desiderio di costruirsi una nuova vita, la sua è una condizione esistenziale che risuona profondamente con quella di molti esuli, costretti a vivere in una terra che non è la loro, portando con sé il peso di un passato che non possono dimenticare.
La gioia intermittente che punteggia la sua quotidianità è un’oasi nel deserto dell’inquietudine. Ogni successo, ogni legame affettivo, è minacciato dal dubbio costante di aver scelto la strada sbagliata. L’amicizia con Mustafa e Hosam, forgiata nel fuoco della tragedia, è un legame indissolubile, ma anche una fonte di tormento. Khaled si interroga costantemente sulla validità delle loro scelte e sul proprio ruolo all’interno di quel gruppo.
La letteratura diventa per lui un rifugio, un modo per dare un senso al mondo e alle proprie esperienze. Nei libri trova conforto, ispirazione e una comunità immaginaria a cui appartenere. Seguendo il filo dei pensieri di Khaled, disseminate lungo il romanzo, troviamo tante pagine ricche di citazioni e riflessioni sulla letteratura inglese e araba.
L’inquietudine di Khaled è profondamente legata alla storia della Libia. La rivoluzione, l’ascesa e la caduta di Gheddafi, sono eventi che lo coinvolgono emotivamente e lo costringono a interrogarsi sul senso della sua esistenza. La distanza geografica non lo isola dai tumulti della sua terra d’origine, anzi, lo rende ancora più consapevole della sua appartenenza a quella storia.
Matar, con la delicatezza di un ricamatore, intesse una trama ricca di sfumature psicologiche, dove il passato e il presente si intrecciano in un nodo inestricabile. L’amicizia con Hosam e Mustafa è un rifugio precario, un’isola in un mare di solitudine. Ma è anche una prigione dorata, che lo costringe a confrontarsi con le proprie fragilità e con le scelte di vita degli altri. Le loro vicende, i loro fallimenti, sono uno specchio in cui Khaled vede riflessa la propria esistenza precaria.
La consapevolezza che “nulla dura per sempre” è un’ombra che aleggia costantemente sulla sua vita. Il tempo, inesorabile, erode le certezze e lo costringe a ridefinire i propri obiettivi. Khaled è un uomo sospeso tra il passato e il futuro, tra il desiderio di un cambiamento radicale e la paura dell’ignoto.
Lo stile di Hisham Matar in Amici di una vita è un delicato equilibrio tra lirismo e realismo. La prosa fluida e raffinata, ricca di immagini evocative, crea un’atmosfera intensa e coinvolgente. L’autore approfondisce l’interiorità dei personaggi con una sensibilità unica, permettendo al lettore di entrare in empatia con le loro sofferenze e le loro speranze. La tonalità malinconica e riflessiva, che pervade l’intero romanzo, invita a una profonda riflessione sulla condizione umana e sul significato dell’esistenza.
Nato nel 1970 a New York da genitori libici, Hisham Matar è vissuto a Tripoli e poi al Cairo prima di trasferirsi a Londra. Per Einaudi ha pubblicato Nessuno al mondo (2006), tradotto in ventinove lingue e finalista al Man Booker Prize, Anatomia di una scomparsa (2011), Il ritorno (2017 e 2018), vincitore del Premio Pulitzer 2017 per l’Autobiografia e del Rathbones Folio Prize 2017, Un punto di approdo (2020) e Amici di una vita (2024), che si è aggiudicato l’Orwell Prize for Political Fiction 2024.


Grazie, come al solito della recensione 🙏🐈⬛💖
"Mi piace"Piace a 1 persona
Grazie a te!!
"Mi piace""Mi piace"