Oggi accendiamo i riflettori su due gemme nascoste del nostro idioma: ‘lucore’ e ‘ferale’. Parole che brillano di luce propria, pronte a illuminare i meandri del nostro linguaggio e a suscitare in noi emozioni profonde.

Lucore, /lu·có·re/: s. m. [lat. *lucor –oris, der. di lucēre «splendere», sull’analogia dei deverbali in –or da verbi in –ēre (cfr. fulgēre – fulgorsplendēre – splendor, ecc.)], ant. o letter. – Lucentezza, luce vivida e intensa ma anche luce diffusa, luce attenuata.
Per capire questa parola, dal significato che appare ambivalente, dobbiamo riferirci al suo suffisso nominale deverbale ‘-ore’. Come ci ricorda la Treccani, questo suffisso ha il potere di trasformare verbi in sostantivi, catturando l’essenza di un’azione, di un’esperienza vissuta. Il suffisso -ore, con la sua origine latina, è un testimone della nostra storia. Dai tempi antichi, questo morfema è stato utilizzato per creare nomi che esprimessero l’azione in modo concreto e tangibile.

I nomi formati con il suffisso -ore sono come istantanee di esperienze vissute sulla nostra pelle. Che si tratti di sensazioni fisiche, come il calore del tepore o il freddo del raffreddore, o di emozioni profonde come l’amore o il dolore, questi termini ci immergono in un mondo di percezioni e sensazioni. L’errore, l’orrore, il fervore, il languore: ciascuno di essi evoca un’esperienza unica, un’emozione intensa, un’immagine viva.

Il lucore è un’esperienza intima e soggettiva, un momento in cui la nostra percezione della luce si intensifica. Che si tratti del bagliore di un fulmine, del chiarore dell’alba o del tremolio di una candela, il lucore ci tocca in profondità, suscitando in noi emozioni e sensazioni che vanno oltre la semplice registrazione visiva. È in questi istanti che la luce diventa qualcosa di più di una mera radiazione elettromagnetica, assumendo un valore simbolico e affettivo. Sia che ci abbagli con la sua forza, sia che si stagli appena percepibile sul fondo del buio, il lucore ci offre un’esperienza sensoriale intensa e memorabile. È nell’abisso tra l’oscurità più profonda e la luminosità più accecante che il lucore trova la sua dimora, invitandoci a riflettere sulla natura ambivalente della luce.

Ferale, /fe·rà·le/: agg. [dal lat. feralis, di etimo incerto]: funesto, luttuoso, funereo, infausto.

Il termine ‘ferale’ appartiene a un lessico raffinato, evocando immagini di morte e sventura. Può qualificare una notizia luttuosa, un atto violento, una calamità o un fallimento rovinoso, conferendo a questi eventi una connotazione particolarmente sinistra e infausta.
La scelta di usare ‘ferale’ è una decisione stilistica precisa. La sua connotazione aulica può sembrare in contrasto con la necessità di esprimere un sentimento forte come il dolore, ma in realtà è proprio questo contrasto che rende la parola così efficace. ‘Ferale’ ci invita a riflettere sulla natura del tragico, a osservare la realtà da una prospettiva più distaccata, senza per questo rinunciare alla profondità di significato.

Spesso a ‘ferale’ viene preferito ‘funesto’ ma qual è la sottile differenza tra i due? A prima vista sembrano sinonimi, ma l’orecchio percepisce sfumature diverse. ‘Funesto’ avvolge in un silenzio attonito, quasi stordito dal peso della notizia. ‘Ferale’, invece, suscita un brivido, un’angoscia più viva, più palpitante. Il suono stesso della parola sembra evocare un’ombra oscura e minacciosa.

Una specie ferale è una specie animale che vive e si riproduce liberamente in natura pur appartenendo ad una specie domestica. La feralità può essere considerata il processo opposto alla domesticazione.
Tra l’altro, Ferale è una montagna dell’Isola d’Elba, in effetti situata in una zona piuttosto selvaggia.

Cosa mi dite di queste due parole? Le usate, vi piacciono?