La signora Meraviglia, di Saba Anglana, Sellerio editore 2024, pp. 304, in copertina un’opera dell’autrice
Romanzo inserito nella dozzina del Premio Strega 2025, proposto da Igiaba Sciego
La signora Meraviglia di Saba Anglana è un’opera caleidoscopica che fonde romanzo e memoir familiare in un turbine di epoche e luoghi. Con una prosa evocativa, in cui erompe un realismo magico di tradizioni ancestrali, l’autrice ci trasporta senza preavviso dai labirintici vicoli di Mogadiscio al vibrante carico di passeggeri del treno che da Ostia porta a Roma, al Veneto dove gruppi contrari all’immigrazione incutono timore. In questo affascinante intreccio narrativo, emergono potenti riflessioni sull’identità fluida, sulle cicatrici del razzismo, sul peso del passato coloniale e fascista italiano e sulle sfide dell’Italia contemporanea. Al cuore del racconto pulsa il disagio profondo di chi ha dovuto recidere le radici dalla propria terra, da quella ‘casa’ lasciata alle spalle, per navigare le incerte acque di una nuova nazione, una lingua sconosciuta e una cultura aliena. Un viaggio letterario intenso e necessario che scava nell’anima di chi porta con sé il fardello della migrazione.
Io non so nulla, sono pagina bianca, sono un treno-fiume che attraversa luoghi e scambia passeggeri.(..) sono convinta che la mia esistenza è anche un fatto della memoria. Sono ciò che ricordo o che credo di ricordare, tra le memorie reali e quelle indotte dai racconti della famiglia che mi ha generata lontano da qui, da ogni geografia del mio presente.
Pag. 59
Il romanzo si apre con una sequenza drammatica nel cuore del secondo conflitto mondiale: la giovane etiope Abebech sta scappando, è braccata da un ascaro somalo, in un contesto di guerra nella campagna intorno al suo villaggio in Etiopia. Fatta prigioniera, Abebech risponde alla sua condizione di preda con un silenzio ostinato, una forma di resistenza interiore e silenziosa di fronte all’uomo che la costringe a diventare madre. Nasce così Maryam, seguita dalla breve esistenza di un altro figlio, Omar, che muore neonato.
Trasferita a forza in Somalia, Abebech si ritrova in balia di una famiglia ostile che non la accoglie, che la percepisce come un corpo estraneo. L’abbandono da parte dell’uomo la lascia ancora più vulnerabile. Tuttavia, il destino la conduce a Mogadiscio, dove incontra Worku Haftermariam. Worku, un uomo carismatico e fiero, porta con sé il fascino di chi ha combattuto la resistenza contro l’occupazione italiana in Etiopia e ha patito la durezza di un campo di concentramento in Somalia. Tra i due nasce un amore profondo e silenzioso, sancito anche dalla lingua: per tutta la vita, Worku si rivolgerà ad Abebech unicamente nell’amarico della sua terra natale, un legame linguistico indissolubile con le proprie radici.
Dalla loro unione nasceranno otto figli in diciannove anni. Insieme, Abebech e Worku affronteranno le sfide e le avversità che la vita riserverà loro, costruendo un legame familiare solido di fronte alle turbolenze della storia e del destino.
Per Abebech, la questione dell’identità si fa subito lacerante. Qual è la sua vera patria, ora che si ritrova lontana dalle terre natie? Quale lingua le appartiene veramente, in un contesto linguistico e culturale alieno? E quale identità avranno i suoi figli, nati e cresciuti in Somalia, perfettamente integrati al punto da parlare il somalo come lingua madre? Il costante ricorso all’amarico da parte di Worku, la lingua del suo amore ma anche della sua irriducibile alterità, diviene per Abebech un’ulteriore fonte di ambiguità. Una lingua che, con l’inasprirsi dei rapporti tra Etiopia e Somalia a causa della contesa dell’Ogaden, si trasforma agli occhi dei somali in un epiteto ingiurioso, un marchio di estraneità. Questa tensione identitaria deflagra in un conflitto aperto con la figlia Maryam, nata dal suo aguzzino, che si identifica pienamente con la Somalia, la terra paterna in cui è cresciuta. In cerca di una via d’uscita dal disagio che serpeggia in famiglia, Maryam finisce per “inventarsi un nemico” che paradossalmente porta il suo stesso sangue: la madre.
Un oscuro malessere, che alcuni chiamano Wukabi, una sorta di demone interiore, sembra impossessarsi di Abebech. L’unica speranza risiede in Wezero Dinkinesh (la signora Meraviglia), una figura enigmatica, maga etiope versata tanto nelle tradizioni ancestrali del suo popolo quanto nelle superstizioni e mitologie somale, capace di intervenire attraverso riti magici e arcani per trattare con questa oscura presenza.
La primogenita di Worku e Abebech, la splendida Nina, intreccia il suo destino con quello di Carlo, un facoltoso italiano con interessi radicati in Somalia, ben ventotto anni più grande di lei. Nonostante il suo passato di alto rango nell’esercito fascista, Carlo non esita a unirsi in matrimonio con la donna etiope, superando le iniziali riserve dei genitori di lei. Tuttavia, questa unione, simbolo di un possibile ponte tra culture, si rivelerà un catalizzatore per la definitiva partenza verso l’Italia. Il vento del cambiamento e le voci sempre più insistenti di un imminente mandato ONU all’Italia per guidare la Somalia all’indipendenza, innescano malumori e una feroce ostilità verso gli italiani. Quel clima di serena convivenza di quartiere, che aveva permesso alla cristiana Abebech di stringere amicizia con donne musulmane somale e yemenite, si incrina irrimediabilmente. Le crescenti tensioni sfociano in pesanti litigi tra i figli della famiglia etiope e i giovani somali, segnando la fine di un’epoca di relativa armonia e preludendo a nuove, incerte dinamiche in terra straniera.
Il presente si impone come un vivido primo piano narrativo: la nipote italiana di Nina – alter ego della scrittrice – è impegnata in una pressante opera di convincimento nei confronti della zia Dighei, esortandola a richiedere la cittadinanza italiana, che scherzosamente chiama la signora Meraviglia (e qui salta subito all’occhio il richiamo alla maga, come a suggerire che per ottenerla servirebbe un incantesimo).
La prospettiva di perdere il permesso di soggiorno, un incubo concretizzatosi per molti stranieri residenti in Italia anche da decenni a partire dal 2018, incombeva minacciosa qualora non si rientrasse in stringenti parametri – un impiego stabile o una pensione, un’abitazione di metratura adeguata, e la certificazione di una competenza linguistica di livello B1.
In queste pagine, il lettore è condotto in un esilarante e al contempo amaro viaggio nel labirinto della burocrazia italiana, specchio delle ambigue intenzioni della classe dirigente nei confronti dell’immigrazione. Avvocati disorientati di fronte alla selva di normative, impiegati statali animati da un malcelato paternalismo che, nel tentativo di assistere zia e nipote, evocano con maldestra nostalgia i trascorsi coloniali dei padri o nonni in Eritrea, spesso confondendola con l’Etiopia. A complicare ulteriormente la già intricata situazione, la distruzione dell’archivio nazionale somalo di Mogadiscio rende impossibile fare chiarezza sul loro status: sono dunque somale o etiopi? La chiave di volta di questo grottesco enigma si rivelerà una preziosa fotografia di famiglia, che li ritrae in un’occasione speciale insieme ad Hailé Selassié, durante una rara visita dell’imperatore etiopico in Somalia.
La soluzione non è nello smantellamento della memoria, ma nell’apertura ai nuovi ricordi. Abbiamo bisogno di nuovo spazio, di esperienze più intense che si prendano il posto del dolore. Non perché la nostra capacità di ricordare sia limitata, (..) ma perché saremmo portati a dare maggiore attenzione a ciò che deve ancora accadere. Con tutto il resto dovremmo imparare a convivere, stabilire alleanze, di tanto in tanto prendere una tisana con i nostri fantasmi.
Pag. 229-230
Un ruolo chiave nel dipanare la complessa matassa della storia familiare e del malessere ereditario proveniente da nonna Abebech, spetta alla zia Dighei, sorella di Nina. Sebbene si presenti come una figura buffa e sorniona, è lei a illuminare le diverse sfaccettature in cui l’ombra del passato si manifesta nei figli di Abebech (e persino nella nipote narratrice).
Curiosamente, zia Dighei è la più incline a una pacifica coesistenza delle identità somala e italiana, ma respinge con decisione l’appellativo di amhar. Per lei, il legame con l’Etiopia non ha mai messo radici profonde, nutrita com’è dai soli ricordi d’infanzia trascorsi a Mogadiscio, e la chiusura delle frontiere etiopi al loro rientro ha sancito un distacco definitivo. Lo zio Bab, intrappolato in un limbo di non-identità, ha trovato rifugio in una malinconica solitudine. Le zie Sophia ed Esther, i cui nomi evocano le dive del cinema italiano ed americano ammirate dal padre nei suoi stessi cinema mogadisciani, pur vivendo ormai in Italia, si contendono aspramente una presunta influenza amarica nella loro esistenza, quasi a voler rivendicare un’origine sfuggente.
Nel tessuto narrativo emerge con forza la descrizione nostalgica e vibrante della Mogadiscio assolata, una città perduta che resta l’unico, indelebile orizzonte della loro giovinezza. Attraverso le pagine rivivono i monumenti iconici, il brulicare delle strade, la distesa accogliente delle spiagge e l’azzurro intenso del mare. Alle vicende dei membri della famiglia si intrecciano le storie di numerosi altri personaggi, figure legate alla professione di levatrice di Abebech o alla vivace quotidianità del vicinato. Tuttavia, aleggia un silenzio significativo sulla Mogadiscio contemporanea, una città dilaniata da interminabili guerre civili tra clan e dalla minaccia dei miliziani di al Shabaab. Nel romanzo, infatti, manca un quadro di riferimento esplicito del presente e del recente passato di una Somalia tormentata da un contesto politico e sociale profondamente inquieto.
Come un ritornello malinconico, si insinua la difficoltà dei protagonisti a identificarsi pienamente con i luoghi delle loro origini. Ma se la terra natia appare sfocata e dolorosa, l’Italia ha rappresentato per loro un approdo realmente valido, una nuova patria capace di colmare il vuoto lasciato dalla perdita?
Verrà sempre qualcuno a dirti cosa puoi e cosa non puoi essere. Ma intanto l’esercizio di una scelta allena alla trasformazione. Siamo attori in questa vita. Entriamo e usciamo dai ruoli per saperli forse un giorno interpretare tutti.
Pag. 284

Saba Anglana (Mogadiscio, 1970), cantante, attrice e scrittrice. I suoi album musicali, distribuiti in più di 60 paesi, compongono idealmente il suo albero genealogico, tra Italia e Africa Orientale. Come autrice, tra i diversi lavori, ha portato in scena il suo monologo teatrale Mogadishow e lo spettacolo musicale Abebech – Fiore che sboccia. Storia di identità, preghiera e guarigione.


❤️💖
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bello, sì, pina anche se ora sono più orientata verso la geopolitica-Africa- abbraccio
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Io sto leggendo un’autrice nigeriana
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ecco sappimi dire…ciaooo pina
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Certo!
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l’ho letto con un gdl quando è uscito. era piaciuto a tutti ma con riserva. alcune pagine sono molto belle ed evocative, altre sono “istruttive” (quelle sulla burocrazia italiana per esempio), ma poco letterarie. direi più interessante per i suoi contenuti che bello
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Capisco il tuo punto di vista. E in parte condivido. Ci sono punte molto alte, come scrittura, come capacità di coinvolgere il lettore, e parti più ordinarie.
Personalmente avrei apprezzato un maggior approfondimento sul primo periodo su nonna Abebech, dopo il rapimento. E magari qualche accenno in più alla situazione politico-sociale etiope.
Comunque un bel romanzo, che si legge con piacere.
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