Nel meraviglioso panorama della lingua italiana, alcune parole si distinguono per la loro capacità di evocare immagini e sensazioni uniche. Se da un lato termini come “lepido” ci trasportano in un mondo di grazia, leggerezza e arguzia, dall’altro parole come “ubbia” ci immergono in atmosfere più cupe, fatte di presagi e preoccupazioni irrazionali. Queste due gemme lessicali, apparentemente agli antipodi, ci offrono uno spaccato affascinante di come il linguaggio possa catturare tanto la luminosità quanto le ombre della nostra esperienza. Esploriamo insieme il significato profondo, le origini e i contesti in cui queste parole, così diverse eppure così evocative, continuano a vivere nel nostro patrimonio linguistico.

Lepido, /lè·pi·do/: agg. [dal lat. lepĭdus] Arguto, spiritoso, spassoso; ameno, piacevole; di persona, che dice cose piacevoli e spiritose, con arguzia che ha spesso dell’ingegnoso.

Alcune parole brillano di una luce particolare, evocando sfumature di significato che vanno oltre la semplice definizione. Una di queste è lepido, un termine che, pur non essendo di uso quotidiano, possiede un’eleganza e un’arguzia tutte sue.
Lepido è un aggettivo che descrive qualcosa o qualcuno caratterizzato da leggerezza, grazia, eleganza e, spesso, arguzia o brio. Non si tratta di una leggerezza superficiale, ma piuttosto di una qualità che denota agilità mentale, vivacità e un tocco di raffinatezza.

Pensiamo a una conversazione lepida: non sarà pesante o pedante, ma scorrerà con facilità, punteggiata da battute intelligenti e osservazioni acute, senza mai cadere nella volgarità. Allo stesso modo, un modo di fare lepido suggerisce un’eleganza non affettata, una disinvoltura che conquista.

Per comprendere appieno il fascino di lepido, dobbiamo scavare nelle sue radici etimologiche. La parola deriva dal latino “lepidus”, che aveva un significato molto simile a quello attuale: piacevole, gradevole, leggiadro, grazioso, spiritoso. A sua volta, “lepidus” è collegato a “lepos”, che significava grazia, eleganza, fascino, arguzia, brio. È interessante notare come questi concetti di leggerezza e piacevolezza fossero già intrinseci al termine fin dalle sue origini latine.
Alcuni studiosi collegano ulteriormente “lepidus” al greco antico “λεπίς” (lepís), che significa scaglia, squama. Questa connessione potrebbe sembrare meno intuitiva, ma potrebbe suggerire un’idea di liscezza, levigatezza o lucentezza, attributi che si possono associare a qualcosa di gradevole e raffinato. Tuttavia, questa è un’ipotesi meno consolidata rispetto al legame diretto con “lepos”.

Oggi, lepido è un aggettivo che si incontra principalmente in contesti che richiedono una certa raffinatezza espressiva. Non è un termine del linguaggio colloquiale quotidiano, ma trova il suo spazio in contesti letterari, artistici e in generale colti. È un piccolo tesoro del nostro lessico, che, pur nella sua rarità, arricchisce la nostra capacità di esprimere concetti di raffinatezza e brio con una precisione quasi poetica. Usarla significa non solo parlare, ma evocare.

Ubbia, /ub·bì·a/: [etimo incerto]. Pregiudizio, credenza o convinzione infondata che è causa di idee, timori, sospetti non giustificati.

Alcune parole si annidano come ombre, cariche di significati profondi e talvolta inquietanti. Ubbia è una di queste. Non è un termine che si sente ogni giorno, eppure racchiude un universo di pensieri oscuri, presagi e paure irrazionali. Ma cosa si nasconde dietro questa parola così particolare? E quali sono le sue radici?

Ubbia è un sostantivo femminile che indica principalmente un presentimento spiacevole, un sospetto infondato, un timore vago e irragionevole, o una preoccupazione che offusca la mente. È quella sensazione fastidiosa che qualcosa non va, anche se non ci sono prove concrete. Non è una paura ben definita, ma piuttosto un’inquietudine latente, un’ombra che si allunga sulla tranquillità; un termine che ci ricorda quanto la nostra mente possa talvolta generare inquietudini senza un motivo apparente, e quanto queste ombre possano influenzare la nostra percezione della realtà. Possiamo distinguere alcune sfumature nel suo significato:

  • Presagio negativo: Spesso, l’ubbia si manifesta come una premonizione di qualcosa di brutto che potrebbe accadere. Non è una previsione logica, ma un sentore, un’intuizione negativa.
  • Sospetto ingiustificato: L’ubbia può anche tradursi in un sospetto verso qualcuno o qualcosa, pur senza avere elementi a sostegno di tale dubbio. È una diffidenza che nasce da dentro, più che da fatti esterni.
  • Preoccupazione ossessiva: In certi contesti, può indicare una vera e propria fissazione, una preoccupazione ricorrente che assilla la mente e difficilmente si riesce a scacciare.

In sintesi, l’ubbia è quel tipo di disagio mentale che si annida nell’irrazionale, influenzando il nostro stato d’animo con un senso di presentimento o timore senza una causa chiara e tangibile. L’origine di ubbia è avvolta in un certo mistero, e non tutti i linguisti concordano su una derivazione univoca. Tuttavia, la teoria più accreditata la ricollega al latino “obvia”, femminile plurale di “obvius”, che significava che viene incontro, che si presenta, che sta davanti.

Cosa mi dite di questi due vocaboli? Ne siete anche voi come me affascinati?