La stagione che non c’era, di Elvira Mujčić, Guanda 2025, pp. 256
«Ditemi un po’, secondo voi un giorno qualcuno saprà che Paese era il nostro?»
Pag. 51
La stagione che non c’era è ambientato nel 1990 nella Jugoslavia in tensione, in procinto della disgregazione nazionale. La narrazione alterna spazi più intimi, personali, familiari, e riflessioni collettive su identità, memoria, nazionalismo, politica e sogni infranti. È un romanzo che esplora il momento in cui le utopie che avevano accompagnato la costruzione della Federazione Jugoslava (fratellanza, unità, convivenza) cominciano a incrinarsi, mentre le voci nazionaliste si fanno più insistenti e violente.
Il titolo La stagione che non c’era suggerisce l’idea di qualcosa che avrebbe dovuto accadere — una stagione (metaforica) fatta di pace, di unità, forse di rinascita — ma non c’è stata, è mancata. Quel che si prospettava come una fase di consolidamento della convivenza, delle promesse di fratellanza dopo la morte di Tito, si interrompe, o rimane sospeso. Il “non esserci” indica quel vuoto, quella stagione negata dalla storia.
Nella letteratura italiana e balcanica contemporanea, la narrazione del crollo della Jugoslavia è stata affrontata in modi molto diversi. Qui sul blog trovate tante recensioni di romanzi di autrici e autori appartenenti ai diversi paesi dell’ex Federazione, ciascuno affrontando e narrando secondo la propria esperienza e sensibilità, secondo un proprio registro stilistico, quanto accaduto. Nella narrativa italiana, a mio parere, spiccano Venuto al mondo di Margaret Mazzantini e Mi limitavo ad amare te di Rosella Postorino.
Rispetto ad altre opere, Mujčić (che è anche una bravissima traduttrice grazie alla quale ho letto altri autori balcanici) si colloca in una linea ibrida, che unisce la memoria privata (famiglia, affetti, identità) al crollo storico collettivo, senza trasformarlo però in un romanzo di guerra: la sua attenzione è pre-bellica, introspettiva, e piena di presagi. Non racconta la guerra in sé, ma il suo lento avvicinarsi. C’è tensione, ma non esplosione. È la “fine dell’innocenza”, non ancora la violenza.
Il libro riflette sull’identità jugoslava non come nostalgia nazionalistica, ma come spazio culturale comune. È un’utopia che si sfalda non solo politicamente, ma esistenzialmente, e Mujčić mostra cosa accade alle persone normali quando un’identità collettiva svanisce.
Mujčić usa una lingua accessibile, ma ricca di echi e stratificazioni. Ogni frase contiene tensioni latenti, segni di qualcosa che si spezza o resiste.
Nel 1990, nella Jugoslavia ancora formalmente unita ma ormai attraversata da tensioni crescenti, tre destini si intrecciano in un piccolo centro vicino Sarajevo. Il romanzo segue le storie parallele di Nene, Merima ed Eliza.
Nene è un artista appena tornato dalla capitale, Sarajevo. Aveva lasciato la sua piccola e claustrofobica cittadina alla ricerca di una realtà più aperta e stimolante, che in effetti aveva trovato tra collettivi di giovani artisti e di studenti universitari. A distanza di cinque anni torna a casa proprio nel momento in cui il tempo sembra riavvolgersi e tornare indietro, come un vento che soffia e rimette in circolo idee di nazionalismi e radici, identità e separazione.
È ossessionato dall’idea che la sua generazione possa essere cancellata dalla memoria collettiva: non vuole che tutto ciò che ha rappresentato l’identità jugoslava – cultura, convivenza, sogni comuni – venga dimenticato o distorto. Per questo concepisce un progetto artistico ambizioso, una performance di archeologia sociale – mettendosi nei panni di un archeologo del futuro che analizzerà i reperti di questa civiltà: manifesti elettorali, tessere del partito… – quasi utopico, per dare voce a chi sta per essere silenziato dalla storia.
Merima, sua amica d’infanzia, è una donna forte e appassionata, che ha sempre creduto nella fratellanza tra i popoli. Orgogliosa della sua tessera di partito si accalora e lotta per sostenere la sua visione. Ma porta anche una ferita profonda: una storia d’amore finita nel silenzio e nella vergogna, proprio per ragioni legate all’etnia e alla religione. Oggi Merima è madre di Eliza, una bambina di otto anni che non ha mai conosciuto suo padre. Il motivo dell’assenza paterna resta un’ombra nel racconto, una presenza silenziosa che pesa su entrambe, sulla quale Nene cerca di indagare, tra i ricordi di Eliza, le versioni di Merima e dei nonni Ferida e Meho.
Eliza, dal canto suo, osserva il mondo con gli occhi di chi ancora non comprende appieno ciò che accade, ma ne percepisce l’inquietudine. La sua infanzia è segnata da domande non dette, dai piccoli segnali che rivelano che qualcosa, intorno a lei, sta cambiando per sempre. È attraverso il suo sguardo innocente che il romanzo rende tangibile la frattura in arrivo.
Fingiamo di essere grandi e di non essere tristi, lo abbiamo sempre saputo che i grandi mentono. Dicono che sono contro la guerra ma poi non è così.
Pag. 224
Tra telegiornali sempre più inquieti (con brani veri che vengono riportati e inseriti nella narrazione), radio che parlano di nazionalismi, manifestazioni e segnali di separazione imminente, La stagione che non c’era racconta un momento sospeso: l’ultimo anno in cui la Jugoslavia esiste ancora, ma sta già scomparendo dalla realtà e dalla memoria.
«Tu credi che un giorno, non so, fra venti o trenta o cinquant’anni, qualcuno saprà che Paese era questo? Cioè, voglio dire, al di là dell’idealizzazione o del disprezzo, com’era davvero? Mi chiedo: ci saranno dei reperti, delle tracce, qualcosa sopravviverà? E se ci saranno, chi analizzerà i nostri cimeli come li leggerà? Sembreremo dei marziani? O peggio, ci archivieranno come impostori?»
Pag. 220
Il punto di vista di Nene sulla realtà in rapido mutamento è quello dell’artista; non sa se definirsi davvero tale, ha molti dubbi sulla sua capacità di lasciare un segno attraverso l’arte ma sa che vuole costruire un’opera per fissare la memoria di ciò che sta per scomparire: è un artista che intuisce l’imminente smarrimento storico, e tenta una sua “resistenza estetica”, che verrà – nel racconto – metaforicamente travolta da una piena del fiume che trascina via la maggior parte dei reperti che aveva collezionato e che la sola Eliza cerca di aiutare a recuperarli.
Il suo progetto artistico in fieri lo avvicina a figure come Danilo Kiš, con il suo Giardino, cenere, dove la memoria si fa frammento contro l’oblio; oppure Claudio Magris in Danubio, che raccoglie i segni della Mitteleuropa perduta. Mujčić però non fa un catalogo intellettuale della memoria: la sua è una memoria incarnata nei corpi e nei legami affettivi.
Merima ed Eliza sono personaggi che vivono l’assenza: del padre (Eliza), dell’amore (Merima), dell’unità (tutti). Mujčić riesce a rendere l’assenza tangibile attraverso piccoli gesti, silenzi, scarti quotidiani.
La stagione che non c’era non è un romanzo che punta al colpo di scena o alla suspense narrativa. È piuttosto un libro di atmosfera, di consapevolezza, di malinconia. La sua forza è la capacità di rendere visibile il vuoto — la stagione perduta — appena prima che diventi tragedia conclamata.
Nelle situazioni di pericolo si manifesta nell’essere umano una maniacale e incontenibile voglia di vedere, di conoscere. Si è attratti in maniera irresistibile da tutto ciò che scardina la ripetizione quotidiana, il suo scorrere prevedibile. In fondo si aspetta per tutta la vita un evento che scuota, che faccia crollare quel che è stato costruito con grande meticolosità. E liberi dall’ossessione di dover tenere, stringere tra le mani i mondi fragili per loro natura inclini alla frammentazione, nonché alla scomparsa.
Pagg. 199-200
Personalmente mi è piaciuto molto perché racconta un momento storico complesso attraverso le emozioni delle persone comuni, senza trasformarlo in una lezione di storia. Ho trovato molto toccante il personaggio di Eliza (sviluppato soprattutto nelle pagine del suo diario), una bambina che cerca di capire il mondo degli adulti senza avere ancora gli strumenti per farlo, e proprio per questo riesce a mostrare quanto possa essere assurda e dolorosa la realtà. Anche la figura di Nene, con il suo bisogno di salvare la memoria attraverso l’arte, mi ha colpito: mi ha fatto riflettere su quanto sia importante ricordare, soprattutto quando tutto intorno sembra andare in pezzi. È un romanzo delicato, malinconico, ma anche pieno di umanità, che lascia il segno proprio perché non urla, ma sussurra.
Elvira Mujčić è una scrittrice e traduttrice bosniaca naturalizzata italiana. Nata nel 1980 in Jugoslavia, oggi abita a Roma. Ha pubblicato i libri Al di là del caos. Cosa rimane dopo Srebrenica (2007), E se Fuad avesse avuto la dinamite? (2009), La lingua di Ana. Chi sei quando perdi radici e parole? (2012), Dieci prugne ai fascisti (2016), Consigli per essere un bravo immigrato (2019) e La buona condotta (2023).


Aggiunto alla mia lista di lettura. Grazie!
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Merita! Buona lettura
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guarda caso proprio in questi ultimi anni stanno fiorendo moltissimi romanzi sulla storia politica delle nazioni
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Sono temi di interesse
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dell’autrice avevo letto La buona condotta e mi era piaciuto. col passare dei mesi trovo che mi sia rimasto dentro più di quanto mi aspettassi.
di recente ho letto Alma, di Federica Manzon, che racconta a modo suo il prima e il dopo (e un po’ il durante) dello sfaldamento della Jugoslavia, visto da questo lato del confine. interessante, ma non mi ha convinta del tutto.
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La buona condotta era piaciuto molto anche a me. Su quello di Manzon sono in linea col tuo giudizio, poteva essere più coinvolgente.
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questo libro mi intriga davvero anche per ragioni geopolitiche, buon lunedì pina, baciotti
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A mio parere, è ben scritto e sa coinvolgere senza “effetti speciali “. Buona settimana 😘
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