INCIPIT
La grotta di sua altezza Ben Kalish Ezab
Luglio 1986
D’estate, nel terreno incolto tra lo chemin du Lac Noir e la foresta, boschetti pieni di cicale offrivano grappoli di fiorellini che noi chiamavamo uva. Erano vecce. Non eravamo sicuri che fossero commestibili, ma le masticavamo. La piccola polpa ci esplodeva in bocca rinfrescandoci i musi per alcuni secondi, ubriachi di nulla, poi la risputavamo. La sabbia e il brecciolino su cui camminavamo ci si infilava tra le dita lisce e i sandali di pelle color nocciola come le cartelle di scuola. La polvere fibrosa della città d’amianto si sollevava ai nostri passi, appiccicandosi al sudore in una pellicola grigia e gessosa. Avevamo i polpacci coperti di quel talco che dicono cancerogeno – paese dell’oro bianco.
Io e il piccolo Poulin convolavamo verso la nostra nuova capanna camminando fianco a fianco, con le piccole corporature quasi identiche sfocate dall’aria danzante degli afosi miraggi mattutini, che avviluppava le nostre conversazioni costanti sotto la sua cupola confidenziale. Poi, dal terreno incolto, ci addentravamo nella pineta fresca.
Questa si estendeva ai piedi delle discariche della King-Beaver, almeno da rue Alfred fino alle aree di sosta e ai capannoni vicini alla sbarra dei camion. Passava un centinaio di metri dietro casa mia e il terreno adiacente, formando una massa tampone tra lo chemin du Lac Noir e i chilometri di recinti metallici della miniera. La maggior parte delle nostre capanne l’avevamo costruita dietro casa mia, ma quell’estate avevamo adottato un grande pino appartato, più vicino all’immenso parcheggio della miniera che a casa. A grandi mali, grandi rifugi.
Era una pineta bastarda, un braccio di foresta in lotta costante e immobile, una foresta di un rosso miele, sempre cangiante, che aveva perso terreno a beneficio di una flora più caotica. I grandi pini erano rassicuranti.
Tra loro crescevano piccoli fiori coriacei e si dispiegavano spettacolari spiagge di felci. Qui e là, grandi massi, canaletti minuscoli, buche di fango, ceppi marci. Grossi funghi arancioni sui tronchi, lumache, muschio a ricoprire ogni cosa. Zanzare, non troppe, tranne al calar della sera. Animaletti: tamia, marmotte, moffette, porcospini, gatte del vicinato che partorivano negli anfratti delle rocce. Ho già visto una volpe, e diversi caprioli in inverno. A primavera, tra i lastroni di neve che si ritiravano e il letto di aghi rossiccio, c’erano cespugli di giunchiglie selvatiche. Resistevo all’impulso di cogliere troppi fiori. Ne prendevo uno alla volta, e lo
lasciavo essiccare senza dare nell’occhio. Avrei adorato avere un mazzolino in camera mia, per qualche giorno,
ma Mom affermava che non era sano respirare i fiori di notte, especially daffodils, they’re poison, e Dad invece
avrebbe detto che un mazzo di giunchiglie era un po’ una roba da finocchi, o che mica è morto qualcuno ah ah ah, che sarà pieno di formiche. Formiche ad aprile.
Sébastien Dulude

