INCIPIT
Quando avevo diciassette anni, Eleanor Rigby ne aveva trentatré. La sua canzone, intendo.
Era il marzo 1999, e mi era venuto in mente di inventarle una vita più precisa dell’ombra emaciata e illusa in cui l’avevano confinata i Beatles. La storia di un angelo – tale Eleanor R., la mia – che aveva disseminato il cielo di stelle. Ma non erano proprio stelle: erano granuli bianchissimi, come chicchi di riso sfuggiti alla sua mano mentre correva inebriata dall’altra parte del cielo. E vi era arrivata correndo, naturalmente, per abbracciare John Lennon.
Ero piena così di quella canzone. Mia madre, che apprezzava tanto i Beatles, mi aveva raccontato la storia di Eleanor R. cento volte: anche la sua novella inedita era ispirata a quel testo. La meravigliosa storia di Eleanor, sorella di padre McKenzie, che finisce senza memoria e senza amore, celebrata dal sermone di suo fratello il giorno di un funerale desolato. Sepolta poi in un giardino della Scozia orientale, dove i gatti in calore senza patria vanno a piangere.
Nella mia compilation artigianale, il brano si trovava sulla traccia numero undici: alla fine strideva, s’increspava odiosamente. Eppure quella sera l’ascoltai a non finire.
Mia sorella Khady era lì di fianco a me, col suo manuale di anatomia, sul suo letto dalla trapuntina vinaccia. Senza scomporsi, osservò che quella canzone ormai stava sulle scatole a tutti, e già da un po’.
Ma c’è da dire Khady non è proprio mia sorella. Non sarebbe agile né fruttuoso spiegare tutta la trafila dell’amore che i miei nutrirono per lei a prima vista (che poi è la trafila della sua adozione, molto fortunata); ma fu adottata all’età di cinque anni, quando io ne avevo tre e mezzo, e da allora in poi crescemmo e vivemmo proprio come sorelle. E altro che storie. Khady non è una figlia adottiva: ce l’ha portata una corrente più potente e più familiare del nostro stesso sangue. Il destino, al quale né io né lei, salvo che per questa cosa, abbiamo mai creduto. È diventata una donna con meno disagio di me, nella mia famiglia.
Mia sorella, dunque, che quella sera ebbe per me la prima brutta sorpresa della nostra storia. E sputò un rospo crudo, amaro, surreale; ma venne a dirmelo con toni e modi che non saprei dipingere senza farla apparire cinica, o completamente schizzata. E lei – giuro – non è niente di tutto ciò.
Che io sapessi, fino a quel momento Khady non aveva mai avuto alcun contatto con la sua madre naturale, la quale viveva in Senegal.
Simonetta Caminiti

