INCIPIT
1
\
Li sentii litigare, come ormai facevano praticamente ogni sera, le voci roche e strozzate che secondo loro avrebbero dovuto essere abbastanza basse da non svegliarmi. Su questo avevano ragione, i loro litigi non mi svegliavano mai, ma soltanto perché di solito quando iniziavano non avevo ancora preso sonno. Percepivo una lite in arrivo come l’addensarsi dell’aria prima di una tempesta. Nemmeno prima dei temporali riesco ad addormentarmi. Pur sentendo tutto, al mattino fingevo di non aver sentito niente, perché non sapevo cos’altro fare.
Certe notti restavo ad ascoltare le loro voci che salivano e calavano per ore, tutto il tempo che ci mettevano a placarsi gradualmente. Quindi, quell’ultima notte, mi sentii trafiggere lo stomaco da un’immediata fitta di terrore quando le voci passarono di colpo dalle urla al silenzio totale: non era mai capitato che smettessero così di punto in bianco. Poi sentii il rumore degli stivali di mia madre sulle mattonelle del corridoio. Quando la porta di camera mia si aprì cigolando mi paralizzai all’istante e cercai di apparire inerte, nella speranza che vedendomi dormire se ne tornasse a litigare.
«Alzati, Alex. Subito».
La mano di mia madre sulla schiena mi fece sobbalzare; la sua voce era brusca e carica d’urgenza, e in quel momento capii che era successo qualcosa di molto serio. Saltai in piedi, la coperta avvolta attorno al corpo, e mia madre mi spinse verso la porta. Il passaggio dal buio alla luce e gli occhi ancora impastati di sonno rendevano tutto sfocato, e per poco non andai a sbattere contro lo stipite. Mentre mi trascinava fuori, stringendomi il braccio con troppa forza, affondai alla cieca la mano libera nel mucchio di scarpe che stava all’ingresso, rovistai un po’ e alla fine riuscii a pescare gli scarponcini da montagna con le suole incrostate di fango e me li strinsi al petto. Uscimmo sul portico – sentivo le schegge delle assi che mi si impigliavano nella pelle spessa delle piante nude senza farmi male – e poi giù per gli scalini. La ghiaia del vialetto mi inghiottì i piedi, e quando mamma aprì la portiera saltai sul sedile di dietro. Mi voltai a guardare dal lunotto posteriore, sbattendo le palpebre per riuscire a vedere qualcosa, magari fumo, o fiamme, qualsiasi cosa potesse spiegare tutta quella fretta, ma lei prese un lembo della coperta, me lo tirò sopra la testa e mi spinse giù, schiacciandomi il fianco sulla gobba in mezzo al sedile.
Non riuscivo a capire se papà fosse rimasto in casa; magari tra i passi che avevo sentito c’erano anche i suoi, o magari era scappato dalla porta sul retro mentre noi uscivamo da quella davanti. Poi ci fu un fruscio di nylon e un oggetto pesante atterrò sul tappetino dell’auto, poco sotto la mia testa: lo zaino che Ma teneva all’ingresso, vicino alle scarpe, e che stava parcheggiato lì da così tanto tempo che avevo smesso di farci caso. Poi il tonfo delle portiere sbattute e il rumore dell’accensione, il mondo che sprofondava mentre noi ci allontanavamo.
Sara Taylor

