INCIPIT
1
Gaza, gennaio 1974
Arriva un carretto trainato da un piccolo asino bruno. Lascia la strada Al-Rasheed, che costeggia il mare, e imbocca il vialetto parzialmente asfaltato della casa. Oltrepassa il cancello rimasto aperto e si ferma più vicino al muro di cinta che all’edificio, forse per non sembrare invadente. L’asino capisce che bisogna aspettare, scalpita. Gli zoccoli sbattono contro l’asfalto per scacciare le mosche, che tornano. Trova un ciuffo di fieno nella sabbia e trascina il carretto un po’ più verso la casa. Il suo padrone lo lascia brucare. Seduto a gambe
incrociate nella sua tunica, sull’asse di legno, l’uomo alza lo sguardo.
La prima cosa che ha cercato con gli occhi, dalla strada, è la bandiera fissata a un’asta al centro del tetto a terrazza. Una battuta comune parla del “grande fazzoletto uscito da una tasca svizzera”. Quel giorno, il tessuto bianco non sventola quasi e, nella sua resa, mangia la croce rossa. Guardando a lungo il vessillo ondeggiante,
forse l’uomo pensa che il lavoro avrebbe potuto essere fatto meglio per evitare che il tessuto si piegasse nella bonaccia. Avverte una punta di delusione e di disagio per i nuovi arrivati. La loro bandiera non dovrebbe mai arrotolarsi su se stessa. La croce dovrebbe sempre potersi vedere per intero, anche se la maggior parte dei gazesi riconosce quell’emblema al primo sguardo.
Guarda strizzando gli occhi, per via del sole bianco di gennaio. Continua ad aspettare, non osa scendere. Per fortuna, le bestie non sono vincolate dalle stesse regole di buona educazione. L’asino si agita e comincia a ragliare a modo suo, timido. Tre teste di dromedario hanno appena fatto capolino da dietro il muro e si strofinano le une contro le altre, il muso proteso verso quel che trovano da mangiare. Il terreno adiacente è una sorta di sodaglia dove gli animali pascolano liberi. L’asino vuole prendere le distanze e trascina il carretto sempre più vicino alla casa. Il padrone rivolge alla bestia qualche parola in arabo, parla anche ai dromedari.
È a quel punto che sui gradini sotto il portico spunta la donna. Si lega svelta i capelli, mette una giacca di daino sopra la camicetta. All’ombra, con gesti rapidi, la vediamo infilarsi i piedi nei mocassini tenendosi alla colonna con una mano. In giardino scopre una scena piuttosto buffa e desolante – una visione un po’ anarchica,
che rasenta le situazioni oniriche: un carretto che gira su se stesso, un asino dal muso grigio, un vecchio munito di un frustino e tre dromedari spuntati dai terreni confinanti, che strappano erba alta a più non posso. Al momento, il vecchio padrone sembra incapace di condurre la bestia che caracolla e finisce col trainare il carretto davanti alle gambe della donna. L’uomo la guarda chinando leggermente la testa. È un saggio? Un sufi? Porta uno di quei magnifici berretti ricamati, un kufi. Il colore blu reale incorona la sua vecchiaia. Il copricapo scende fino al bordo più esterno delle sopracciglia, che sembrano sostenerlo. Sono enormi sopracciglia irsute, bianche e grigie, splendide. Insieme al bianco delle tempie, creano un effetto armonico sulla pelle scura. Si direbbe un custode, con le rughe piene d’ombra. Uno di quei prìncipi immortali, il berretto blu come unica stravaganza. Si tocca la fronte e si presenta. Hadj.
Anne-Sophie Subilia

