INCIPIT
ESTATE
L’abbiamo visto arrivare quando l’estate già se ne andava. L’aria tiepida, il mare increspato, il movimento degli uccelli, tutto sembrava annunciare la pioggia o l’irruzione anticipata dell’autunno. Presto ci saremmo resi conto che non era vero, che avremmo avuto qualche altro giorno di caldo e che in realtà, semplicemente, l’isola voleva avvisarci che avevamo visite. Per questo si dissestava leggermente, per allertarci, perché l’isola sa bene che ad attirare la nostra attenzione non è il rumore né il silenzio, non il ruggito del mare né un tremore della terra, nemmeno la luce di una meteora o il rombo delle navi da crociera, nulla di grande, nulla di enorme: ciò che è troppo in vista non ha affatto bisogno di noi e allora è più semplice tirare dritto per l’isola stessa, lei sa bene che a scuoterci sono, invece, quelle minime alterazioni che richiedono una seconda occhiata, un passo indietro, una placida verifica della differenza: tutti quei segnali che si rivelano di colpo e ci fanno capire, affascinati, che sono lì da diversi giorni, a volteggiare sulla nostra isola per farsi strada tra le crepe dell’uguale.
E così quella mattina ad allertarci erano il tepore ventoso dell’aria, la sottile increspatura del mare, lo svolazzare nervoso degli uccelli, e ovviamente il rintocco spettrale e lontano della campana sommersa. È stato quest’ultimo a scuoterci del tutto, a obbligarci a staccare gli occhi da terra e ricevere lo stormo di segnali che da tre o quattro giorni l’isola stava tessendo per noi, con una pazienza da ragnetto.
“Arriva qualcuno,” abbiamo detto allora, e abbiamo lasciato le pale infilzate a terra e poggiato i rastrelli, e fatto due fischi ai cani perché riportassero a casa le pecore e avvisato i figli di dar da mangiare loro alle bestie, mentre in lontananza cominciava a sentirsi il ronzio dell’aeroplano del gringo Mike.
Ci siamo diretti senza fretta verso l’aerodromo, incontrandoci lungo la strada. Forse parlavamo di qualcosa, o forse non dicevamo nulla e semplicemente guardavamo in alto, notando come il rumore cresceva tra le nuvole e il mare e il vento si agitavano ancora un po’, mentre il puntino nero nel cielo si faceva sempre più grande, più rumoroso, finché non gli sono spuntate le ali, ha fatto un giro da gabbiano sopra l’isola, ha mostrato le ruote, è sceso a livelli piuttosto preoccupanti, ha abbassato il carrello anteriore e finalmente è atterrato sballonzolando qua e là sulla pista, che sembra sempre molto corta e a volte per disgrazia lo è davvero.
Allora abbiamo lasciato andare il respiro trattenuto, come ogni volta che ci passa per la testa di venire a vedere un atterraggio.
Per primo è sceso il gringo Mike, che si è messo ad allungare braccia e gambe come se il viaggio dal continente fosse durato sette ore e non tredici miserabili minuti. Noialtri invece abbiamo allungato il collo per non perderci il momento in cui sarebbe sceso il visitatore, chissà chi l’avrebbe riconosciuto per primo, chissà quale ospite illustre meritava lo sforzo dell’isola e i suoi segnali da lumachina.
Andrés Montero

