Il mestiere di leggere. Blog di Pina Bertoli

Letture, riflessioni sull'arte, sulla musica.

Stella Benson

INCIPIT

Nigel

Londra, dicembre 1933

Cammino a passi veloci lungo il canale, in una mattina gelida d’inverno. Il cielo è a tratti di un azzurro intenso, ma la nebbia non si è ancora diradata del tutto. Sembra un nastro sottile che avvolge i tetti delle case e nasconde pezzi d’orizzonte, entra nella testa e confonde le idee.
Sono uscito da ore, non ricordo neanche da quanto. Nella mappa disordinata dei miei pensieri lo spazio e il tempo non contano più, non hanno senso né logica. Sono insieme giovane e vecchio, ragazzino e uomo adulto, figlio e padre, fidanzato e marito. Passato e presente scompaiono nell’aria come strati rarefatti di foschia.
Girando per la città senza una meta, mi ritrovo nel silenzio di Maida Vale. Risalgo la collina solitaria, rallentando. Nello stretto viale alberato che segue il canale non incrocio quasi nessuno. Un lattaio raccoglie le bottiglie vuote dietro porte chiuse, una donna stringe al petto un mazzo di fiori.
Mi lascio alle spalle il viavai rumoroso della stazione, le voci delle strade, le sirene delle ambulanze, il rombo degli autobus e le urla degli strilloni. Mi allontano dal flusso ondivago della folla, attraverso vicoli nascosti e grigi, passaggi coperti, giardini sul retro delle case.
Ci vuole un certo coraggio a seguire un ritmo proprio, a fuggire il caos in cui siamo immersi tutti, che lo abbiamo scelto o no. Cammino mettendo da parte desideri e frustrazioni, delusioni e speranze. Mi fermo a fissare l’acqua scura che scorre lenta nel canale. È talmente lenta che sembra immobile.
Ho cambiato le regole di questa giornata senza avvertire nessuno. In ufficio il telefono squillerà a lungo, i clienti continueranno a cercarmi, la segretaria non saprà cosa rispondere. Vado avanti lo stesso, mi guardo
intorno sospettoso, con l’aria di un uomo in fuga.
Nella vita sono sempre rimasto fedele ai miei punti saldi: lavoro, famiglia, Corona e Inghilterra. La guerra mi ha cambiato, ma non così profondamente come è successo a tanti della mia generazione. Esisto, vado avanti. Al ritorno dal fronte non mi sono perduto. Mi sentivo vuoto, ma non ne ho parlato e nel tempo le ferite si sono rimarginate. Sono riuscito a mantenere la mente limpida nonostante l’orrore, il dolore, il frastuono di quei giorni, gli amici che non sono più tornati. Poi i morti hanno lasciato indietro i vivi, i fantasmi se ne sono andati via. Ho chiuso il resto da qualche parte, non ci ho più pensato.
Rivedo la Piccola Venezia, uno specchio d’acqua dove i canali Regent e Grand Union si incontrano, allargandosi in un laghetto idilliaco con un’isoletta al centro. Al grande molo di pietra si radunano le barche piatte, cariche di piante e biciclette. È un posto così bello. In molti attraversano la città solo per fermarsi sotto le fronde dei salici. Potrebbe essere Amsterdam invece di Londra, tanto che qualcuno ha dedicato a Rembrandt il giardino sulla riva.
D’estate gli argini dei canali si riempiono di giovani artisti che cercano ispirazione dal paesaggio. Le anime vibrano sotto quella luce. Aspiranti pittori con tele e cavalletti incrociano scrittori con i taccuini in mano. Le coppiette passeggiano a braccetto vicino agli ormeggi e si scambiano promesse, i bambini ridono in coro al teatro dei burattini. D’inverno c’è solo silenzio. Dalla cabina di una chiatta sale una voce lontana, da un’altra
escono musica classica, sigarette e profumo di caffè.
Forse è stato un poeta romantico a chiamare questo posto la Piccola Venezia, in ricordo di un viaggio in Italia. Robert Browning oppure Lord Byron, non ne sono certo. Piuttosto i canali mi portano indietro agli anni prima della guerra, quando ero un ragazzo e venivo a sedermi sul molo a leggere. In testa avevo solo l’amore e poco altro, le illusioni dolci che ti rendono vivo.

Francesca Cosentino

Recensione