Vi sono esseri che per tutta la loro vita si dannano allo scopo di avanzare, conoscere, conquistare, scoprire, migliorare, per poi accorgersi d’esser sempre andati alla ricerca solo della vibrazione che li ha scaraventati al mondo: per costoro il punto di partenza e il punto di arrivo coincidono. Poi ce ne sono altri che invece pur stando fermi percorrono una strada lunga e avventurosa perché è il mondo a scivolare sotto i loro piedi, e finiscono molto lontano da dove erano partiti: Marco Carrera era uno di essi.

Il colibrì, di Sandro Veronesi, La nave di Teseo 2019, pp. 366

Sandro Veronesi è per me uno dei più grandi scrittori contemporanei; nella mia personale galleria dei grandi sta vicino a Richard Yates. E come Yates (in epoche diverse, in società diverse, d’accordo, ma con la stessa bravura), racconta il mondo borghese, puntando l’attenzione sulla fragilità dei rapporti umani. Specialmente all’interno della famiglia. Della famiglia borghese.

Veronesi costruisce le sue opere (vedi anche Caos calmo) attorno ad un unico tema, la vita della borghesia italiana; lo fa con una scrittura perfetta, che utilizza diversi registri, con una struttura narrativa che, senza seguire un ordine cronologico, va componendosi attraverso un movimento centripeto. Una lente di ingrandimento attraverso cui vediamo particolari, percepiamo minimi scarti che però hanno un impatto prolungato nel tempo, e sono talvolta decisivi per mostrare le dinamiche, le ipocrisie, le fragilità, le felicità e le infelicità, i demoni, le illusioni.
Ne Il colibrì i temi, lo stile, l’intreccio e l’impianto narrativo, tutto, è perfettamente in equilibrio e armonizzato; il risultato è il suo capolavoro (per ora …).

In questo romanzo il fulcro della storia è il protagonista Marco Carrera, il colibrì. Grazie a questa potente metafora, il personaggio è perfettamente messo a fuoco: imperturbabile e resiliente lungo tutto la vita, capace di affrontare e sopravvivere ad una lunga serie di situazioni sfavorevoli se non drammatiche. Marco continua a opporre il suo movimento allo scorrere del tempo e agli eventi dolorosi, un po’ come succede nelle piscine in cui c’è il nuoto controcorrente: si continua a battere piedi e braccia e si rimane sì fermi, ma non si viene trascinati via dalla corrente, e si produce un cambiamento intorno a sé, spostando l’acqua e dandole forme e movimenti.

Il tempo della vita scorre portando continui cambiamenti mentre lui quel tempo vorrebbe tenerlo fermo. Avrebbe voluto fermarlo prima di scoprire che i suoi genitori, Letizia e Probo, così diversi tra loro, hanno lasciato che il loro amore si trasformasse in un’illusione di felicità, alimentata da sopportazione e bugie. Avrebbe voluto fermare il tempo di una sera, in spiaggia, lui e Luisa da soli nell’unico atto di amore. Avrebbe voluto fissare per sempre il tempo della giovinezza di sua sorella Irene, intelligente e tormentata, con un mostro che la rode dal di dentro. E quello di suo fratello Giacomo, che invece se ne è scappato negli Stati Uniti per dimenticare un amore impossibile.

Da ragazzino il primo scoglio è la sua statura: basso per la sua età viene sottoposto ad una cura ormonale sperimentale che lo farà crescere sedici centimetri in otto mesi. Una decisione che genera un’aspra contrapposizione tra il padre, favorevole, e la madre, contraria; alla fine, la cura si fa, e Marco si adatta.
Poi i rapporti tesi tra i genitori, di cui Marco è ignaro fino allo svelamento tramite sua sorella, che invece spiava i genitori e soffriva per la loro ipocrisia nell’inscenare la famiglia perfetta: poi la tragedia della sorella, più avanti il suo matrimonio fallimentare con Marina, l’amore platonico tirato per tutta la vita con Luisa, la perdita della figlia, l’allontanamento del fratello Giacomo. Una serie di batoste che avrebbero potuto piegarlo, distruggerlo. Invece, Marco Carrera, grazie alla sua capacità di stare fermo – come il colibrì che concentra tutta la sua attività forsennata, settanta battiti d’ali al secondo, per rimanere immobile – è riuscito ad avanzare sempre nella vita, dolorosamente sì, ma senza mai crollare.

Aveva tenuto insieme, Marco, un piccolo fragile mondo che senza di lui si sarebbe dissolto in un soffio, e questo gli aveva dato una forza e una fierezza che in passato non aveva mai conosciuto.

Certo, la batosta più grande – la morte della figlia – lo mette a dura prova, come, trent’anni prima, la morte della sorella fu così devastante da disgregare la famiglia. Ma Marco resiste anche alla perdita della figlia, aiutato dallo psicanalista della sua ex moglie Marina, il dottor Carradori. Riesce a trovare un equilibrio, uno scopo di vita nel doversi occupare della nipote. Lo dice in modo commovente a Luisa in una lettera, in risposta alla sua in cui lo paragona al colibrì:

Non sto facendo la vittima Luisa: è solo per dirti che non sono rimasto fermo nemmeno io, magari ci fossi riuscito. Fosse dipeso da me sì, ma non è stato possibile, e ognuno dei cambiamenti che ho subito ha prodotto un urto tremendo, che mi ha spostato di peso, sbattendomi letteralmente in un’altra vita, e po in un’altra, e poi in un’altra, vite alle quali ho dovuto adattarmi brutalmente, senza mediazioni. Capisci che io provi sollievo a trattenere quante più cose possibili?

Marco, in due fasi della sua vita (da giovane, e da uomo maturo) cerca la botta adrenalinica nel gioco d’azzardo. Lo fa girando per bische e casinò dapprima con il suo amico e compare, Duccio, l’Innominabile (così chiamato a causa della sua fama di iettatore), evitato da tutti, e poi da solo. È proprio la sua imperturbabilità che gli consente di essere un buon giocatore d’azzardo e di vincere sempre, anche quando il suo amico iettatore viene ingaggiato per farlo perdere, per “farlo piangere”.

Eppure era stato proprio lui, l’Innominabile, a salvargli la vita quando, già seduti su un aereo, lo aveva fatto scendere, presagendo la tragedia, lo schianto dell’aeromobile. Cosa che effettivamente accadde, tutti i passeggeri morti, solo loro due salvi, perché scesi dal velivolo prima della partenza.

E questo evento, al di là dell’eccezionalità in esso connaturata, della fatalità grazie alla quale Marco non perse la vita, è poi cruciale, doppiamente, nella sua vita, perché proprio in funzione di esso, Marco conosce, si innamora e sposa Marina, una hostess slovena che aveva dichiarato, in una trasmissione televisiva, di essere anche lei scampata al destino di quel volo. E Marco, in questo fatale evento, aveva voluto vedere una predestinazione, un inevitabile cammino che li aveva avvicinati e fatti incontrare, sempre grazie al caso, quella combinazione di eventi per cui, in un pomeriggio unico nella sua esistenza, era rimasto davanti alla tv a guardare, unica volta, proprio quella trasmissione pomeridiana.

Dovrebbe essere noto – e invece non lo è – che il destino dei rapporti tra le persone viene deciso all’inizio, una volta per tutte, sempre, e che per sapere in anticipo come andranno a finire le cose basta guardare come sono cominciate.

Il matrimonio, basato su una menzogna, con Marina si rivela una delle tragedie più dolorose della sua vita, solamente salvabile dalla nascita della figlia, Adele. Marina è una donna piegata dalla depressione, dall’autolesionismo, dalla dipendenza (da droghe e sesso). La sua aggressività distrugge tutto, sta quasi per distruggere la figlia, attaccata a quel filo invisibile che la lega al muro, all’unico riparo stabile, cioè suo padre, con cui, alla fine, rimane, per sempre, e con cui affronta l’evento cardine della sua vita, la nascita di un essere che sarà portatore di un nuovo modo di stare al mondo.

Il film, regia di Francesca Archibugi

Marco non sopporta la psicoanalisi eppure tutte le donne della sua vita fanno ricorso all’analista. Il romanzo si apre proprio con la visita dell’analista di Marina a studio da Marco; gli rivolge una sfilza di domande, lo vuole salvare da un proposito di Marina; è lui che mette in moto i dubbi di Marco. Sarà lui, lungo tutta l’esistenza di Marco – quando ormai saranno diventati due amici/confidenti – ad essere presente nei momenti chiave.

Luisa è l’amore di una vita; un amore che si consuma in un unico atto, da adolescenti, una notte d’estate sulla spiaggia, mentre altro stava accadendo, a poca distanza da lì. Una notte in cui il destino di Marco ha subito una sterzata, ha imboccato una strada chiusa, una battuta d’arresto.

Ci sono tanti lutti nella vita di Marco Carrera, ma anche tanta vita, che raggiunge il suo culmine con “l’uomo del futuro”, che è una donna, la nipote Mirajin, una normale bambina come tante, ma per lui la cosa più bella del mondo, la sua ancora che lo lega alla vita.

Il romanzo ha un impianto narrativo che funziona come un meccanismo perfettamente congegnato: la trama si sviluppa con frequenti flashback che fanno luce sul passato, e con prolessi, ovvero salti temporali nel futuro. Dunque una struttura dinamica, ravvivata dalla presenza di due narratoril’autore, che tira le fila raccontando le vicende di Marco e della sua famiglia, commentando tra le righe, con ironia e arguzia, e lo stesso protagonista, attraverso le lettere che manda a Luisa e quelle che riceve da lei, le mail a suo fratello in cui esterna i suoi pensieri, commenti o ricordi, le liste d’inventario della casa dei genitori, fatte per recuperare l’identità dell’essere stati una famiglia.

E alla fine della sua vita, Marco capisce che tutto accade per uno scopo, che i dolori, le perdite, le sofferenze, ma anche le gioie, e i momenti di felicità hanno dato alla luce una vita nuova, una nuova generazione – in senso più ampio – che potrà cambiare e salvare il mondo. E allora anche il suo stare fermo è servito a proteggere quel movimento. Il suo sopravvivere alle tempeste della vita è un’ode alla vita, al futuro.

Fa’ conto che io dica estate,
scriva la parola “colibrì”,
la metta in una busta,
la porti giù per la discesa
fino alla buca. Quando tu aprirai
la lettera, ti riverranno in mente
quei giorni e quanto,
ma proprio tanto, ti amo.

Raymond Carver*

Qui potete leggere l’incipit.

Sandro Veronesi è nato a Firenze nel 1959. È laureato in architettura. Ha pubblicato: Per dove parte questo treno allegro (1988), Gli sfiorati (1990), Occhio per occhio. La pena di morte in quattro storie (1992), Venite venite B–52 (1995, nuova edizione La nave di Teseo 2016), Live (1996, nuova edizione La nave di Teseo 2016), La forza del passato (2000, nuova edizione La nave di Teseo 2020, premio Campiello e premio Viareggio-Rèpaci), Ring City (2001), Superalbo (2002), No Man’s Land (2003, nuova edizione La nave di Teseo 2016), Caos calmo (2005, nuova edizione La nave di Teseo 2020, premio Strega, Prix Fémina e Prix Méditerranée), Brucia Troia (2007, nuova edizione La nave di Teseo 2016), XY (2010, nuova edizione La nave di Teseo 2020, premio Superflaiano), Baci scagliati altrove (2012), Viaggi e viaggetti (2013), Terre rare (2014, nuova edizione La nave di Teseo 2022, premio Bagutta ed Europese Literatuurprijs), Non dirlo. Il Vangelo di Marco (2015), Un dio ti guarda (2016), Cani d’estate (2018). Con Il colibrì, uscito nel 2019 e tradotto in 27 lingue, ha vinto per la seconda volta il premio Strega. Da questo romanzo, Francesca Archibugi ha tratto l’omonimo film con Pierfrancesco Favino e Kasia Smutniak. Sandro Veronesi ha collaborato con numerosi quotidiani e quasi tutte le riviste letterarie. Attualmente collabora con il “Corriere della Sera”. Dall’ottobre 2020 è membro del Comitato per il Diritto al Soccorso. Ha cinque figli e vive a Roma. Il romanzo Il colibrì, uscito per La nave di Teseo nel 2019, ha vinto la LXXIV edizione del Premio Strega (il secondo per l’autore) ed è stato eletto vincitore della Classifica di qualità de “La lettura – Corriere della sera”. Sandro Veronesi ha collaborato con numerosi quotidiani e quasi tutte le riviste letterarie. Attualmente collabora con il “Corriere della sera”. Ha cinque figli e vive a Roma.

*citata in una lettera da Luisa