Si sa, i creativi hanno sempre qualche mania. Lo ripeteva sempre la mia prof di arte al liceo e aveva ragione: pittori, musicisti, scrittori, ognuno di loro coltiva la sua personale mania, o ha la sua madeleine di proustiana memoria…

Anche il grande John Steinbeck – l’autore di Furore, Uomini e topi, La valle dell’Eden eccetera -, lo scrittore che ha affrontato nelle sue opere temi complessi come l’alienazione, la povertà e l’ingiustizia sociale rendendole immortali, ebbene anche lui aveva la sua mania per quanto riguarda l’atto della scrittura: le matite.

Come ci racconta Alex Johnson nel sue meraviglioso  Una stanza tutta per sé:

Ovunque scrivesse, Steinbeck iniziava sempre appuntando le matite alla perfezione. Ne consumava centinaia per ogni libro.

Come diceva sua figlio, le appuntiva in modo quasi chirurgico, e cercava continuamente il modello perfetto per la sua scrittura, quello cioè che doveva adattarsi al mood della giornata, a seconda del tono con cui scriveva in quel particolare momento. C’erano infatti i giorni di scrittura morbida e quelli di scrittura dura, e le matite dovevano essere di conseguenza quelle più adatte.

Aveva un debole per quelle rotonde, mentre le esagonali non si adattavano alla conformazione della sua mano e gli causavano dolori alle dita e alle articolazioni della mano se le usava troppo a lungo. Le matite dovevano essere nere, “preferibilmente di marca Blaisdell Calculator 600, Eberhard Faber Mongol 480 o Eberhard Faber Blackwing 602”. Usava anche un temperino elettrico a cui teneva molto.

Ogni mattina si metteva di fronte una scatola con 24 matite perfettamente appuntite, cambiandole e temperandole durante la giornata.

Ma le sue manie non si fermavano qui: aveva infatti anche una passione per i quaderni. Nel senso che li usava in modo particolare e maniacale: La valle dell’Eden, ad esempio, fu scritto sulle sole pagine di destra, mentre quelle di sinistra le usava per per scrivere delle note per l’editore.

Steinbeck amava anche le innovazioni tecnologiche: usava il dittafono e una delle prime macchine per scrivere portatili. Chissà come sarebbe stato felice di usare un pc…

Illustrazione di James Oses

Dove scriveva John Steinbeck? Qual era il suo rifugio dove dedicarsi, indisturbato, alla stesura delle opere? Sempre Alex Johnson ci illumina.

Il suo desiderio, come risulta dalle lettere all’amica Elizabeth Otis, era quello di costruirsi un “minuscolo faro” dove rinchiudersi e dove nessuno avrebbe potuto mettere piede. E così fabbricò lui stesso una specie di capanno a pianta esagonale nella sua proprietà di Sag Harbour (a Long Island), che battezzò “Joyous Gard” in onore del castello di Lancillotto.

Il capanno era una veranda con finestre su ogni lato; era qui che amava scrivere, seduto su una sedia da regista a cui si riferiva come il “trono periglioso”, l’unica sedia presente nel capanno, mica che qualcuno decidesse di fargli compagnia… Vi era anche un grande tavolo sui si trovavano libri e fogli.

Steinbeck aveva anche un appartamento nell’Upper East Side, a New York, molto silenzioso in cui si dedicava alla scrittura. Appena fuori dalla porta aveva posto un cartello che recitava: “Desolazione di uno scorbutico” su un lato, e “Città pulita” sull’altro: sua moglie girava il cartello su questo lato dopo che aveva sistemato la stanza.

Che ne dite? Curioso vero? E se volete scoprire le manie più sorprendenti degli scrittori, leggete questo post!

La casa a Long Island