Oggi ci tuffiamo in un contrasto di parole: da un lato, l’opulenza e la ricchezza di “opimo”, dall’altro, la malvagità e la bassezza di “nequizia”. Un binomio che ci fa riflettere sulla complessità del linguaggio. Le accomuna un’aura di desuetudine, il fatto di non essere molto utilizzate, di avere bisogno una spolveratina. E allora, parliamone!

Opimo, /o·pì·mo/: agg. [dal lat. opimus, di origine incerta], letter. – Grasso, pingue; per estensione, fertile, abbondante di frutti, copioso, ricco. Un aggettivo ormai del tutto snobbato, capita raramente di vederlo o ancor meno sentirlo; eppure esprime una grazia, una rotondità nella pronuncia, con quella bella O tonda iniziale, che ritroviamo anche alla fine… Non so voi, ma a me piace molto questo aggettivo.

Nequizia, /ne·quì·zia/: [dal lat. nequitia, der. di nequam, agg. indecl., «dappoco, tristo, dissoluto»], letter. – Malvagità, iniquità.
Un suono che graffia, un’etimologia che condanna. Questa parola, così diretta e schietta, scava nel cuore della malvagità, spogliandola di ogni orpello. Niente romanticismi, niente eroismi: la nequizia è prosaica, banale. È l’inganno grossolano, l’atto meschino, la vita sciupata. È lo spacciatore che avvelena le vite, il poliziotto corrotto che macchia un’uniforme. Sono le persone capaci di nequizie inenarrabili nei confronti dei più deboli. Una parola che ci ricorda che il male, spesso, è solo una brutta copia del bene.

Che mi dite di queste due parole?